All’inizio del decennio e del secolo, quando ancora l’Unione Europea evocava «l’economia della conoscenza» lungo i percorsi e gli obiettivi indicati dalla Strategia di Lisbona 2000, in uno dei tanti Libri Verde venne formulata la definizione della responsabilità sociale dell’impresa: «Integrazione su base volontaria dei problemi sociali ed ambientali delle imprese nelle loro attività commerciali e nelle relazioni con le altre parti».

In sostanza, si trattava di tradurre l’assunzione di una responsabilità sociale dell’impresa in un’occasione per qualificare il profilo e il ruolo imprenditoriale e migliorare le opportunità di fare profitto. In parole più semplici, un’impresa che investe nel sociale fornisce di se stessa un’immagine che aiuta a migliorarne le performance sui mercati. Perché quest’impegno determini un impatto il più possibile positivo occorre creare, da parte delle istituzioni pubbliche e delle forze sociali, un contesto favorevole e un sistema di reti idonei a massimizzare gli effetti dell’impegno e i suoi risultati.

Parlare di responsabilità sociale dell’impresa significa rivisitare una storia che viene da lontano. L’impresa, da sempre, porta sulle spalle l’onere di produrre ricchezza, di creare occupazione, di diffondere benessere e sicurezza. L’impresa deve svolgere questa funzione nel quadro di un insieme di regole dettate da leggi, da contratti e da tanti vincoli generali e specifici. Responsabilità nei confronti dei propri dipendenti, innanzitutto. Non solo per quanto riguarda il diritto a una giusta retribuzione e le prerogative di cui il cittadino-lavoratore fruisce anche all’interno dell’azienda, intesa come “formazione sociale” in cui si esplica la sua personalità.

L’impresa è responsabile anche della salute e della sicurezza del lavoratore ed è tenuta a garantirgli di prestare la propria opera in condizioni adeguate, al punto di risponderne pure quando l’evento infortunistico si determini in caso di forza maggiore, circostanza fortuita e colpa dello stesso lavoratore. I giuristi parlano, in questa fattispecie, di “rischio di impresa”, nel senso di ribadire che l’imprenditore è titolare di un preciso dovere corrispondente ad altrettanto preciso diritto del dipendente.

Anche il sistema di welfare all’italiana poggia sull’impresa e il lavoro ed è finanziato da quel cuneo contributivo (e fiscale) che tanto opprime il reddito, l’occupazione e la produzione. Infine, per limitarsi alle primarie responsabilità sociali delle imprese, si arriva a quelle nei confronti dell’ambiente e dell’ecologia, nella consapevolezza di un vecchio adagio per cui noi non riceviamo la terra in dono dai nostri padri, ma dobbiamo esserne custodi a favore dei nostri figli.

Ma potremmo andare oltre, perché nel tempo sull’impresa sono stati caricati nuovi compiti, dai permessi per l’assistenza ai familiari non autosufficienti ai congedi parentali di vario tipo, fino alle politiche di conciliazione. Tutto questo è tanto, ma responsabilità sociale significa fare qualche cosa in più. È proprio qui che casca l’asino. Fino a che punto, in un mondo diventato un grande mercato (questa situazione non è un danno da subire, ma un’opportunità da cogliere), in un mondo dove la competizione è la regola, questa complessa funzione che l’impresa è chiamata a svolgere in campo sociale non finisce per opprimere la prima fondamentale, genetica responsabilità dell’impresa, cioè quella di produrre ricchezza e lavoro?

 

Il tema esiste e non può essere esorcizzato con le petizioni di principio in cui eccellono le “anime belle” tuttora e sempre prigioniere di una realtà che non può essere riportata in vita mediante la respirazione artificiale del diritto positivo. Rispondono a questa domanda due personalità in perfetto stile bipartisan. Ha scritto Giulio Tremonti: «L’ideale è avere tanto la fabbrica perfetta quanto i diritti perfetti. Ed è reale il rischio che si conservino i diritti ma si perda la fabbrica emigrata altrove. Questo è il nostro problema. E la soluzione non può essere massimalista, può essere solo riformista, complessa e oggettivamente difficile da gestire politicamente: quanto dei diritti perfetti è compatibile con la globalizzazione?». Gli ha fatto eco Tony Blair: «Sinistra versus destra nell’accezione ultima del XX secolo è contrapposizione tramontata, anche se molti politici non l’hanno ancora accettato. Oggi la discriminante è apertura versus chiusura ai fenomeni derivanti dalla globalizzazione. Per questo l’immigrazione, per esempio, è un tema centrale».

 

Va da sé che l’Europa non sarà mai disposta, sul piano politico, a rinunciare a standard di vita consolidati e a tutele che hanno mostrato la loro solidità – rispetto a quelle di altri Paesi – nel corso della crisi che stiamo attraversando. Ma le imprese devono essere messe in grado di continuare ad essere “sociali”, rimanendo anche “vitali”, perché un’impresa morta, “sociale” non potrà mai esserlo. La soluzione è quella di coniugare socialità ed economicità, di fare della socialità una convenienza di carattere economico. Ma anche in questo caso tra il dire e il fare…