Nel campo delle relazioni industriali, la Fiat non è una controparte raffinata, attenta alle innovazioni audaci che fanno scrivere intere biblioteche ai giuslavoristi. Il suo approccio, nel corso dei decenni, è sempre stato di carattere pratico, rivolto a risolvere i problemi, confidando nel potere che il gruppo era in grado di esprimere, anche grazie alla sua capacità di condizionare il sistema politico e istituzionale.



Nei confronti del sindacato la Fiat ha conosciuto lunghi periodi di tregua (sempre armata): basti ricordare l’accordo Agnelli-Lama (l’Avvocato agì come presidente della Confindustria) sul punto unico di scala mobile della metà degli anni ’70, che determinò più guai di un’epidemia di colera all’inflazione e all’asseto retributivo, ma che in una certa fase corrispondeva alla strategia del gruppo.



Nella generalità dei casi il rapporto tra Fiat e sindacati è stato caratterizzato, alternativamente, da vittorie e da sconfitte. A chi vinceva, come a chi perdeva non restavano vie d’uscita, salvo la possibilità di salvare appena la faccia. Eppure, nel secondo dopoguerra (tralasciamo l’occupazione delle fabbriche del 1919 che pure diedero un contributo di rilievo al rafforzamento del fascismo), le svolte sono sempre avvenute negli stabilimenti torinesi.

Fu così già nel lontano 1955, quando la Fiom fu sconfitta nelle elezioni di commissione interna e quel trauma determinò un radicale cambiamento di linea politica in senso riformista. Di nuovo nel 1980, dopo i 35 giorni di sciopero a oltranza e la manifestazione di protesta dei quarantamila. Anche gli eventi determinatisi dopo l’accordo di Pomigliano d’Arco sono intessuti del filo dei grandi cambiamenti. La soluzione di rendere più ampie le deroghe previste dal contratto nazionale non è stato sufficiente.



Eppure, prima del vertice di New York c’era da scommettere su di una marcia indietro di Marchionne. Invece l’ad ha tirato diritto. Ed Emma Marcegaglia non se l’è sentita di avventurarsi lungo il percorso su cui si è incamminato il gruppo. In fondo, la presidente è riuscita, in teoria, a contenere i danni. La Newco uscirà dalla Federmeccanica e dalla Confindustria, fino a quando potrà rientrarvi alla testa della Federauto e dopo aver raggiunto l’obiettivo di un contratto per il settore. Intanto, Marchionne non arretra.

 

Forse il nostro può diventare, dunque, un Paese in cui sono possibili dei grandi cambiamenti in campo sindacale. La Fiom minaccia la “guerra totale”. Ma il suo è il ruggito del topo. La federazione dei metalmeccanici della Cgil può mettere a ferro e a fuoco l’Italia (insieme alle “guardie rosse” che paralizzano le città), ma le sue saranno sempre delle vittorie di Pirro, perché non ha dalla sua un piano B come la Fiat.

 

Il gruppo automobilistico ha una possibilità che il sindacato e i lavoratori non hanno: andarsene all’estero. Ci sono tanti Paesi, per fortuna, che non mettono in mano un’organizzazione sindacale tanto potente come la Fiom a sindacalisti retrò come Maurizio Landini e compagni. Se invece la Fiat capirà che la partita è persa, i suoi investimenti, da noi, diventeranno residuali. Ma la determinazione con cui affronta la sfida per un nuovo modello di relazioni industriali è la prova migliore che la Fiat è intenzionata non solo a rimanere in Italia, ma a realizzare anche le condizioni per poterlo fare in termini di effettiva convenienza e capacità competitiva.

 

Se non vi fosse la possibilità di cambiare profondamente le regole non avrebbe senso investire in Italia. Le imprese multinazionali se ne sono accorte da tempo e non investono più da noi. Quelle che si sono insediate negli anni scorsi cercano di andarsene. È in tale contesto che la Fiat gioca la sua carta. Con opzioni all’altezza della sfida.

È bene, però, che anche gli altri interlocutori si rendano conto dei cambiamenti derivanti dall’uscita della Fiat da Confindustria allo scopo di realizzare uno strumento contrattuale specifico per il settore dell’auto. Soprattutto se il suo esempio sarà seguito da alcune delle altre (invero poche) grandi imprese sopravvissute in Italia. In sostanza, se questa è la prospettiva il sistema delle relazioni industriali è ormai alla fine.

 

Esso non è più in grado da tempo di dare copertura alle esigenze delle piccole imprese (che sono la stragrande maggioranza). Se le grandi vanno alla ricerca di soluzioni autonome, alla Confindustria e alle centrali sindacali rimarrà ben poco da fare. Simul stabunt, simul cadent.   

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