Il Governo – il ministro Maurizio Sacconi lo ha ribadito più volte – non ha intenzione di promuovere un’iniziativa legislativa sul tema della rappresentanza e della rappresentatività sindacale se non per recepire un’eventuale intesa intervenuta tra le parti sociali. Si tratta di un’opinione condivisibile che s’iscrive nella linea di condotta del titolare del Lavoro, particolarmente attento alle posizioni della Cisl e della Uil, con le quali è stato possibile instaurare rapporti corretti e costruttivi, privi della ostilità pregiudiziale della Cgil.



A insistere per una definizione legislativa è invece il Pd, i cui esponenti hanno presentato, sia alla Camera che al Senato, diverse proposte e di differente contenuto. Esiste persino un disegno di legge d’iniziativa popolare, presentato dalla Fiom. In sostanza, la sinistra politica e sindacale ritiene che, a fronte dell’inconcludenza delle parti sociali (a causa dell’indisponibilità della Cisl e della Uil), il Parlamento debba regolare ugualmente la materia.



È dal 1948 (da quando cioè il legislatore costituzionale indicò, nell’articolo 39, un marchingegno che teneva insieme gli aspetti della rappresentanza, della rappresentatività e dell’efficacia erga omnes dei contratti collettivi) che questo problema riemerge – come un fenomeno carsico – ogniqualvolta si rompono i rapporti unitari tra le confederazioni storiche e si determina il ricorso ad accordi separati.

L’ordinamento intersindacale italiano (fu Gino Giugni a individuarne le basi giuridiche all’inizio degli anni ‘60) si è sviluppato al di fuori dell’impianto normativo indicato dalla Carta. Per decenni questa situazione è andata bene a tutti i protagonisti e il sistema ha funzionato. Quando, invece, sopraggiungono delle difficoltà è solitamente la Cgil a chiedere di rientrare nello schema previsto dall’articolo 39, nella convinzione di far valere la legge dei numeri, di imporre attraverso di essa il proprio punto di vista nei negoziati e di contrastare gli accordi separati fondati sul principio del reciproco riconoscimento tra controparti: lo stesso principio preso a fondamento, nel dopoguerra, delle relazioni sindacali in assenza dell’attuazione dell’articolo 39 Cost.



Alcuni anni or sono, quando il centrosinistra era in maggioranza, fu presentato un progetto di legge (primo firmatario Pietro Gasperoni dei Ds) che raccoglieva le istanze della Cgil e che cadde alla fine della legislatura. Adesso, vista la posizione del Governo, non esiste, in materia, un’iniziativa legislativa ufficiale della maggioranza. Sono state presentate, però, alla Camera due proposte di legge a firma di alcuni deputati del PdL.

La prima (a cura di chi scrive) è una proposta di legge costituzionale (C.3672) di riforma dell’articolo 39 che eleva al rango della norma fondamentale i principi dell’ordinamento intersindacale quali l’autonomia e il reciproco riconoscimento tra le parti; in sostanza, il sistema è sciolto dal vincolo dell’unità d’azione e viene resa conforme ai principi costituzionali la libera contrattazione a prescindere dalla partecipazione o meno di tutti i suoi protagonisti.

 

Di conseguenza, l’efficacia erga omnes dei contratti non dipende più dal meccanismo della rappresentanza costituita in proporzione degli iscritti, ma da decreti legislativi del Governo che recepiscono i contratti collettivi.

 

La seconda (C.3750 di cui è primo firmatario Vincenzo Antonio Fontana) si propone di indurre le parti sociali ad applicare un punto del Protocollo del 22 gennaio 2009 riguardante proprio le regole della rappresentanza e della rappresentatività.

 

Se il negoziato non arriverà a conclusione in modo autonomo, il ministro del Lavoro dovrà convocare le parti per favorire una mediazione. Nel caso di insuccesso entro un congruo arco di tempo, il ministro sarà legittimato a disciplinare la materia con suo decreto, in termini sperimentali per un triennio.