Immaginiamo che Sergio Marchionne (quando gli dicono che sta innovando le relazioni industriali) si senta come quel personaggio di Molière che si meravigliava di «aver fatto sempre della prosa». Tra i tanti problemi che deve affrontare quotidianamente, il manager italo-canadese non si è mai posto quello di rifondare un nuovo modello di contrattazione collettiva. Ha tenuto conto soltanto dell’interesse del gruppo.
Come ha scritto Dario Di Vico sul Corriere della Sera del 24 dicembre, per Marchionne «le relazioni sindacali sono funzionali al raggiungimento degli obiettivi di mercato e all’ottimizzazione dell’organizzazione del lavoro». L’ad del Lingotto vuole risolvere dei problemi pratici per i suoi stabilimenti allo scopo di tutelare gli investimenti che si appresta a compiere. Per realizzare tale obiettivo, Marchionne non guarda in faccia a nessuno, tanto da uscire dalla Confindustria sbattendo la porta (a Giovanni Agnelli non sarebbe neppure passato per la mente un gesto siffatto).
Si direbbe che Marchionne, l’amerikano, voglia applicare al Belpaese lo slogan caro alla General Motors in altre epoche: ciò che va bene per la Fiat va bene anche per l’Italia. E, in primo luogo, anche i dipendenti del gruppo possono trarre dei vantaggi dalla nuova organizzazione produttiva. Marchionne, infatti, è disposto a pagare meglio un lavoro ritenuto più adeguato, visto che si ipotizzano miglioramenti retributivi dell’ordine di 3.700 euro l’anno: un importo, questo, la cui acquisizione, a colpi di rinnovi di contratti nazionali, richiederebbe un periodo di almeno sei anni.
Anche se si chiamerà pomposamente “contratto del settore dell’automobile”, anche se, tra qualche tempo, la Fiat costituirà, nell’ambito della Confindustria (che vuole salvare le apparenze), una federazione dell’auto (la Federauto consorella della Federmeccanica), d’ora in poi i rapporti di lavoro saranno regolati, in pratica, da un contratto aziendale ovvero da uno strumento (erano queste le intenzioni di Marchionne) specifico e finalizzato a realizzare, insieme ai lavoratori, la strategia dell’impresa.
La differenza con l’attuale assetto è presto detta. Oggi il contratto nazionale di lavoro è definito secondo criteri generali e astratti riguardanti – sia pure con articolazioni interne – un’intera categoria (i cui confini sono stati tracciati nel tempo, a partire dal modello corporativo che conferiva alla categoria socio-economica una valenza amministrativa). Non è un caso, infatti, che il dibattito si sia sempre incentrato, dal Protocollo del 1993 all’Accordo quadro del 2009, sui criteri da prendere a riferimento per incrementare le retribuzioni in una chiave più solidaristica e assistenziale che di carattere produttivo.
La logica che portava a migliorare, il più possibile, le condizioni di lavoro e di vita di un’intera categoria (era questa, al dunque, la funzione “di classe” dei sindacati, riconosciuta dalla stessa Confindustria) finiva per drenare, a livello della contrattazione nazionale, gran parte delle risorse disponibili, lasciando margini ristretti per la contrattazione decentrata, attraverso la quale doveva essere compensata la maggiore produttività. In sostanza, però, alla singola impresa non veniva nessun beneficio diretto in cambio degli oneri sostenuti per il rinnovo dei contratti nazionali.
Tramite il contratto dell’auto (in pratica, una finzione giuridica), la newco Fiat-Chrysler, invece, diventa padrona in casa propria, impiega le risorse disponibili a favore dei propri dipendenti in cambio di una prestazione più funzionale alle sueesigenze. E il contratto ritorna a essere il terreno proprio dello “scambio” tra capitale e lavoro, in un contesto definito come la realtà concreta di uno stabilimento.
Quanto ai temi della rappresentanza sindacale, la Fiat agisce in coerenza con quanto previsto dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori che, dopo le modifiche conseguenti al referendum del 1995, recita: «Rappresentanze sindacali aziendali possono essere costituite ad iniziativa dei lavoratori in ogni unità produttiva, nell’ambito delle associazioni sindacali che siano firmatarie di contratti collettivi di lavoro applicati nell’unità produttiva». La Fiom non è stata discriminata, perché nessuno l’ha esclusa dal negoziato. Ma dopo la mancata adesione all’accordo per Mirafiori non le sarà più consentito di lucrare sulla comoda rendita di posizione di chi incassa i benefici derivanti dalle intese a cui si oppone.
Ci auguriamo che le ultime vicende aiutino la Cgil ad aprire un dibattito serio con la sua federazione di categoria, dalla cui linea di condotta (sono sempre parole di Dario Di Vico) si ricava «l’impressione che il suo gruppo dirigente nazionale (non più quello torinese) insegua altri progetti, sia focalizzato sull’esigenza di riorganizzare un’opposizione politica e sociale al berlusconismo e non abbia voglia di innovare i ferri del mestiere». Una strada questa che porta la Fiom a riempire le piazze raccogliendo intorno a sé tutto il variopinto mondo della contestazione, ma che la sta escludendo dal governo dei processi reali nei posti di lavoro.
Gli osservatori fanno notare che Susanna Camusso cercherà un’intesa con la Confindustria sulla rappresentanza sindacale allo scopo di arginare l’anomalia della Fiat. Farebbe meglio a porsi preliminarmente il problema dell’anomalia che si trova nella sua organizzazione.