Ci risiamo con la Fiat: questa volta è il Lingotto a interrompere un negoziato fino a quel momento condotto, a Mirafiori, con tutte le federazioni di categoria, Fiom compresa. Il motivo di questo colpo di scena è rimasto oscuro. Tanto che i commenti sono stati improntati a considerazioni di metodo.

La Cgil si è presa una piccola rivincita, additando all’opinione pubblica il caso di una Fiat che si è presa la responsabilità della rottura. Mentre gli esponenti degli altri sindacati (firmatari dell’accordo di Pomigliano) e il ministro del Lavoro hanno preferito esprimere valutazioni caute e interlocutorie, invitando le parti a ritornare al tavolo.



A dire che il re è nudo è stato un uomo politico. Il sindaco di Torino, Sergio Chiamparino, al solito, ha dato prova, nella sua intervista a La Repubblica, di realismo e di lungimiranza nei confronti dell’ipotesi di un contratto dell’auto separato e autonomo da quello della categoria dei metalmeccanici. Proprio questo è il punto. La Fiat persegue un obiettivo molto esplicito: il contratto del settore auto. E si è accorta – si spiega così la pausa nel negoziato – che a essere contrari non sono solo i sindacati ma anche la Confindustria.



L’obiettivo è sicuramente interessante e innovativo, ma Sergio Marchionne non riuscirà mai, da solo, ad avere ragione della deriva conservatrice che tiene insieme le parti sociali, nè dell’asse che collega, nei fatti, la Confindustria alla Cgil. Il manager italo-canadese ha bisogno di alleanze e può trovarle, se usa cautela, in quelle stesse forze che hanno sottoscritto l’accordo di Pomigliano. L’esperienza dimostra, però, che anche la Cisl e la Uil hanno dei limiti oltre i quali non possono andare.

Per adesso solo la Fismic, l’organizzazione erede del Sida, il sindacato dell’auto dei tempi di Vittorio Valletta, si è dichiarata disponibile a seguire Marchionne sulla via del contratto di settore. La Fim e la Uilm hanno aderito, dopo Pomigliano, alla mediazione di Emma Marcegaglia, accettando di ampliare l’ambito delle deroghe contenute nel contratto nazionale allo scopo di salvare la capra della categoria (il contratto nazionale, appunto) e i cavoli di Marchionne (la specificità dell’auto). Ma evidentemente alla Fiat quest’apertura non è bastata. E soprattutto l’ad del gruppo multinazionale non ha nessuna intenzione di fare il giro di tutti gli stabilimenti per negoziare, caso per caso e faticosamente, le condizioni e le regole che servono al suo progetto.



Che cosa dobbiamo aspettarci da Marchionne? Una sfida alta o il solito accomodamento all’italiana? Nel primo caso ci attendono scelte clamorose, come l’uscita della Fiat dalla Confindustria e la navigazione solitaria verso un nuovo modello di relazioni industriali. Nel secondo caso, si cercherà qualche marchingegno all’interno del modello tradizionale. Ma esiste anche una via intermedia di un certo spessore. Per esempio, potrebbe essere sviluppato un livello negoziale di settore, nell’ambito dello stesso contratto nazionale.

Peraltro, nella storia delle relazioni industriali, il livello settoriale ha occupato un posto d’onore. La riscossa operaia degli anni ’60, iniziò con le lotte e gli accordi dei siderurgici e soprattutto degli elettromeccanici. Tanto che la rottura del principio dell’esclusività del contratto nazionale e l’apertura ad esperienze di contrattazione articolata camminavano su due gambe: il settore e l’azienda. Così, il celebre Protocollo Intersind-Asap che, nel 1962, aprì la strada, a partire proprio dai metalmeccanici, al modello contrattuale in pratica tuttora vigente (sia pure con modifiche e razionalizzazioni), faceva riferimento alla “possibilità di una maggiore articolazione della contrattazione collettiva per settori o a livello aziendale che attui concretamente i principi affermati ai livelli superiori oltre a consentire una migliore aderenza delle norme contrattuali alle particolari esigenze settoriali ed aziendali”.

 

Nelle due stagioni contrattuali successive, il negoziato a livello settoriale si svolse, come previsto, contestualmente ai rinnovi dei contratti nazionali, con una precisa indicazione delle materie riservate ai sei settori riconosciuti: orario di lavoro; classificazione del personale; minimi retributivi; indennità per lavori disagiati. Fu poi la spinta egualitaria dell’autunno caldo ad abolire quasi tutte le specificità dei differenti comparti.

 

Oggi non è il caso di ritornare indietro di cinquant’anni e a settori largamente modificati. Sarebbe necessario uno sforzo di fantasia per introdurre nell’articolazione contrattuale altri contesti, non solo aziendali o territoriali, ma “verticali”; in grado, cioè, di adeguare meglio la contrattazione alle trasformazioni produttive nelle reti e nelle filiere. Ma il sistema ne avrà il tempo e la forza? 

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