In settimana si svolgerà il referendum a Mirafiori. Il suo esito sarà importante da molti punti di vista, non solo economici e sociali, ma anche sul versante politico in senso stretto. Nell’attesa è bene fare chiarezza su alcuni aspetti che sono stati al centro del dibattito di queste settimane, spesso con deformazioni della realtà al solo scopo di lotta politica.
Cominciamo dai problemi posti dall’accordo per quanto riguarda il sistema delle relazioni industriali. Il senso dell’intesa in proposito è chiaro: abilitate a gestire l’accordo sono le parti che lo hanno sottoscritto; ciò in forza di una norma dello Statuto dei lavoratori, l’articolo 19 che, dopo le modifiche apportate da un referendum promosso da forze di sinistra nel 1995, riconosce il diritto di promuovere rappresentanze sindacali aziendali alle organizzazioni firmatarie dei contratti applicati nella azienda.
L’accordo ha stabilito che i sindacati firmatari possono designare quindici loro rappresentanti, superando così il principio – dicono i critici – del libero voto dei lavoratori per le rappresentanze unitarie, come previsto dal Protocollo del 1993. Lungi da noi la convinzione che il modello Mirafiori possa costituire la soluzione per i temi della rappresentanza e della rappresentatività sindacale. Siamo dell’opinione, infatti, che si tratti di una misura di transizione legata al conflitto aperto tra il Lingotto e la Fiom (bisognerà pure consentire all’azienda il diritto alla legittima difesa avvalendosi delle possibilità che la legge prevede) e che, prima o poi, si dovrà tornare a un sistema più democratico e partecipato.
Attenzione, però, all’abuso di parole, alle accuse a vanvera che si sono sprecate in queste settimane, anche con la collaborazione fattiva di troppi intellettuali sempre pronti a cavalcare tutte le cause sbagliate. Non c’è il fascismo alle porte e neppure la minaccia di una svolta autoritaria; a meno di non voler disconoscere l’impianto giuridico di quello Statuto dei lavoratori (legge n. 300 del 1970) che, in altre occasioni, sembra immodificabile ed eterno, come se fosse stato consegnato all’umanità non dal Parlamento italiano ma dal Signore sul Monte Sinai.
Lo Statuto configura una legislazione di sostegno del sindacato in azienda, in quanto i diritti sindacali (assemblea, raccolta delle quote associative, Rsa, diffusione del materiale di propaganda, sede, ecc.) sono riconosciuti all’organizzazione esterna alla fabbrica, mentre i lavoratori ne fruiscono attraverso di essa. In mancanza dell’attuazione dell’articolo 39 della Costituzione, che indicava una regolamentazione precisa dei criteri della rappresentanza e della rappresentatività, la legislazione del lavoro, incluso lo stesso Statuto, ha enucleato il concetto di organizzazione maggiormente rappresentativa (quale soggetto titolare dei diritti sindacali) legando questo requisito all’essere firmataria dei contratti di lavoro.
Una vera e propria tautologia: le parti sociali si riconoscevano reciprocamente, insieme stipulavano i contratti di lavoro, acquisendo così il profilo di organizzazioni maggiormente rappresentative. L’essere ammessi al club dell’edulcoro riconoscimento significava anche garantirsi l’accesso al forziere dei diritti sindacali. Il referendum del 1995 è intervenuto a gamba tesa in questo assetto, agganciando la rappresentanza alla firma del contratto applicato in azienda.
Anche il Protocollo del 1993 non ha abbandonato del tutto il principio della designazione. Le Rsu, infatti, sono composte per una parte prevalente da rappresentanti eletti, per un’altra parte solo da designati. Le Rsu, poi, nel patto del 1993, erano espressione di Cgil, Cisl e Uil (anche se non era precluso l’ingresso di altre forze in una logica subordinata), in forza di quell’impostazione tradizionale che ne faceva degli interlocutori privilegiati. Da sempre, poi, il sistema si modifica e si allarga per cooptazione. Sono i soggetti insider che decidono se ammettere altri protagonisti. È noto, infatti, che i sindacati diversi da Cgil, Cisl e Uil si sono sempre accontentati di tavoli separati dove potevano al massimo sottoscrivere quanto Cgil, Cisl e Uil avevano concordato (a meno che, in determinate situazioni, alcune organizzazioni “figlie di un dio minore” non fossero state cooptate, com’è il caso Fismic nel gruppo Fiat).
Oggi, in un clima di lotta politica, le regole da sempre vigenti per includere o escludere qualche organizzazione sindacale, vengono usate contro la Fiom. Di questa vicenda si può fare un caso politico, non una questione di illegittimità. Le leggi sono uguali per tutti, anche quando sono imperfette. O bisognose di quelle modifiche che la Fiom ha sempre impedito. Quanto agli effetti politici di una vittoria del sì nel referendum, il Governo riceverebbe un assist insperato e un po’ immeritato. La sconfitta della Fiom coinvolgerebbe anche la Cgil, ovvero il nemico più implacabile del Governo.