Secondo uno studio che Stefano Patriarca – ora dell’Ufficio studi dell’Inps, ma già “sherpa” (ovvero tecnico a supporto dei negoziatori “politici”) per la Cgil durante il varo della riforma Dini del 1995 – ha presentato ieri, il sistema contributivo (che vale per quanti hanno cominciato a lavorare dopo il 1° gennaio 1996) non è la principale causa del disastro pensionistico che – si dice – graverà sulle giovani generazioni, ma un modello previdenziale in grado di assicurare non solo la sostenibilità finanziaria di lungo periodo, ma anche l’adeguatezza dei trattamenti riservati alle future generazioni.



Ad aggiustare i limiti di quella riforma strutturale del 1995, che è alla base del nostro sistema pensionistico, oltre alle modifiche apportate in tutti gli anni che ci separano da quell’evento, un contributo positivo arriverà dalle misure adottate nell’attuale legislatura da parte del Governo Berlusconi. La ricerca di Patriarca dimostra, infatti, che l’elevazione graduale dell’età pensionabile non è solo coerente con il prolungamento delle attese di vita (grazie all’aggancio automatico tra il requisito anagrafico e la dinamica demografica), ma determinerà anche la “tenuta” sul piano sociale delle prestazioni.



Nel 2046, ad esempio, un lavoratore dipendente che abbia iniziato la sua attività a 29 anni, lavorando 40 anni (e quindi ritirandosi a 69 anni, come sarà normale visto che gli resterà da vivere almeno altri vent’anni) andrà in quiescenza – udite, udite ! – con una pensione netta pari al 78% della retribuzione netta. Se avrà lavorato solo 35 anni riceverà un assegno pari al 70%. Se a un lavoratore toccassero in sorte 4 anni di disoccupazione, il suo trattamento, alla data considerata, sarebbe pari al 66%.

Diverso il caso di un collaboratore a progetto, iscritto alla Gestione separata presso l’Inps: ammesso e non concesso che una persona rimanga per tutta la vita in tale condizione professionale, come nella realtà non accade quasi mai, essa dovrà accontentarsi (a 69 anni di età con 35 di contributi) di un tasso di sostituzione del 57% (appena tre punti in meno di quanto il Governo Prodi e i sindacati avevano garantito, sulla carta, ai giovani, nel Protocollo sul welfare del 2007).



Lo studio, pubblicato sul sito dell’Inps, ipotizza una serie molto ampia di casi tutti rivolti a sfatare tanti luoghi comuni del nostro dibattito. L’allarme è rientrato, allora? Guai a commettere l’errore opposto a quello dei tanti mozzorecchi nostrani. La chiave di volta del problema non sta nel calcolo contributivo; ma la pensione non è altro che lo specchio della vita lavorativa, una sorta di ritratto di Dorian Gray in cui rimane il segno di tutto quanto accade prima di varcare il confine della quiescenza. Se la storia professionale di un lavoratore è caratterizzata da discontinuità, periodi di inattività, retribuzioni ridotte o irregolari, anche il suo trattamento pensionistico ne risentirà. E questa, purtroppo, è una condizione molto diffusa tra le giovani generazioni.

È quindi la difficile occupabilità – non gli effetti delle norme previdenziali vigenti – a determinare una situazione, anch’essa critica, da pensionati. In una certa misura, poi, la precarietà non è un’invenzione dei nostri tempi. Non a caso, oggi, anche nell’ambito del sistema retributivo, vi sono quattro milioni di pensioni integrate al minimo, rispondenti a situazioni lavorative, reddituali e contributive deboli. Lo studio di Stefano Patriarca, concludendo, oltre a rendere giustizia al sistema contributivo, presenta un limite, proprio nel prefigurare, a proprio fondamento, un quadro macroeconomico e occupazionale che appartiene soltanto al mondo dell’utopia.

I parametri di riferimento prefigurano una crescita continua del Pil nominale del 4%, con la relativa e conseguente lievitazione delle retribuzioni e dei redditi. Certo è bene ricordare a noi tutti – e ai manipolatori dell’opinione pubblica, in particolare – che la pensione non può svolgere il ruolo del “vendicatore mascherato” dei torti, veri o presunti, che un lavoratore ha subito durante la vita lavorativa.

Il livello di pensione che le giovani generazioni avranno dipenderà dunque dai trend economici e dalla loro storia lavorativa. Ed è su questi parametri che occorre intervenire in via prioritaria, piuttosto che puntare sul mantenimento di norme che garantiscono solo a parole trattamenti che poggiano sul vuoto (o come è avvenuto fino a oggi sul debito pubblico, che in larga parte è frutto della disinvoltura pensionistica del passato e del presente). E queste semplici verità Patriarca le ricorda alle parti sociali e alle forze politiche.

Ma il sistema deve essere aggiustato anche tenendo conto della realtà e individuando forme adeguate di protezione per le situazioni particolarmente critiche, che siano in grado di ripristinare, almeno in parte, momenti di solidarietà tra le generazioni e all’interno delle generazioni; correggendo così uno dei difetti della riforma Dini che, con la scelta della capitalizzazione simulata, non contiene correttivi solidaristici.