Supponiamo che un supporter del Cavaliere, dotato di una qualche infarinatura sui temi del mercato del lavoro, si fosse messo a redigere un “puro esercizio teorico” della portata seguente: in conseguenza di una maggiore flessibilità in uscita dal rapporto di lavoro – come previsto nella lettera di intenti presentata al Consiglio europeo – tante aziende (almeno 700mila) si sentiranno libere di assumere un dipendente a tempo indeterminato. Così, nel giro di qualche mese, ci saranno 700mila occupati in più. Sarebbe una tesi plausibile, ma non dimostrabile, visto che si affiderebbe a valutazioni e a comportamenti non riscontrabili sulla base di dati oggettivi. Tanto più che le norme possono servire a incentivare o a disincentivare le assunzioni, ma a creare i posti di lavoro ci pensa solo l’economia. In ogni caso, all’indirizzo dell’incauto supporter pioverebbero lazzi e frizzi, ilarità e magari anche insulti. In sostanza, per fare notizia deve sempre essere l’uomo a mordere il cane. Poi, se si tratta di Berlusconi e del Governo sono ammesse solo le critiche ed è ben accetto il disfattismo. Ma torniamo al motivo di questa premessa.
Sabato scorso la Cgia di Mestre ha pubblicato una nota secondo la quale, se fossero state in vigore, durante gli anni in cui la crisi era più acuta, le nuove norme sui licenziamenti, il tasso di disoccupazione, in Italia, anziché all’8,2%, sarebbe salito all’11,1%. Lo studio, assai poco responsabile, dell’organizzazione imprenditoriale è arrivato a questa conclusione trattando, arbitrariamente, da possibili licenziati tutti i lavoratori che, nei mesi scorsi, sono stati posti in cassa integrazione a zero ore. Pertanto, seguendo questo criterio, la Cgia è arrivata a calcolare in 737mila i “potenziali espulsi”. Ed è stata presa sul serio dalla stampa e dalle tv, ovviamente portando acqua al mulino dello “sfascismo” nazionale.
Una tesi siffatta mette forzatamente insieme la funzione degli ammortizzatori sociali (quella di scongiurare il più possibile gli esuberi o comunque di allontanarli nel tempo, mantenendo, intanto, la continuità del rapporto di lavoro) e la disciplina individuale del licenziamento, come se una parziale revisione della seconda comportasse di per sé il venir meno dei primi. Dove sta scritto che, se il recesso per motivi economici, ritenuto ingiustificato dal giudice, fosse liberato dall’onere della reintegra nel posto di lavoro (come avviene già oggi nella generalità dei casi), i datori smetterebbero di ricorrere alla cassa integrazione e comincerebbero a licenziare? Tanto più che, per molte delle aziende interessate (quelle con meno di 15 dipendenti), non cambierebbe proprio nulla, essendo tenute, anche adesso, unicamente a una tutela di carattere risarcitorio, nel caso di illegittimità del licenziamento.
C’è forse qualcuno, poi, in grado di dimostrare che le aziende ricorrono alla cassa integrazione al solo scopo di evitare una vertenza e un’eventuale condanna alla reintegra? Siamo seri. Con i provvedimenti messi in campo durante la fase più acuta della crisi (le varie forme di cassa integrazione e di solidarietà applicate, anche in deroga, a tutto il lavoro dipendente) sono stati salvati 700mila posti di lavoro.
Se oggi il Governo – su precisa indicazione della Bce e dell’Ue – considera necessaria una parziale revisione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, limitatamente ai casi di licenziamento di carattere economico (nelle fattispecie di recesso discriminatorio o per motivi disciplinari la normativa non cambierebbe) ciò è dovuto all’esigenza di spezzare il dualismo esistente nel mercato del lavoro, che è alla base – almeno in una certa misura – della condizione di precarietà delle giovani generazioni.
Peraltro al licenziamento economico si ricorre in modo prevalente nelle piccole imprese (sempre che abbiano più di 15 dipendenti), come quelle rappresentate dalla Cgia. L’azione dell’esecutivo non si limiterebbe, poi, a una modifica della disciplina del licenziamento individuale, ma promuoverebbe – anche questa è una sollecitazione dell’Ue – degli strumenti universalistici di protezione del reddito e delle politiche attive del lavoro in una logica di flexicurity, affinché possa trovare un’altra occupazione chi ha perso il lavoro.
In proposito, il premier ha dichiarato che il Governo è interessato al ddl presentato al Senato da Pietro Ichino, il quale è apparso ben felice di veder prendere in considerazione il suo lavoro. In verità, il progetto del senatore del Pd (e insigne giuslavorista) è complesso e poco funzionale, specie nell’ipotesi di contratto unico. Ma l’idea si iscrive a pieno titolo nell’azione che il Cavaliere ha messo in campo per reagire al momento di grande difficoltà che è seguito all’ultimatum dell’Unione europea della settimana scorsa.
È bene, allora, non perdere tempo. La Commissione Lavoro del Senato dia corso all’incardinamento del ddl Ichino, con l’obiettivo di portarne a termine rapidamente l’esame. Se ne vedrebbero delle belle in casa Pd e in generale dell’opposizione. Il gruppo Fli, ad esempio, ha presentato alla Camera un progetto di legge del tutto simile a quello di Ichino. Il giuslavorista, poi, è un ottimo propagandista di se stesso. E gode di ottima stampa.