Da quando si è insediato il nuovo governo (sì, proprio quello dei “professori” che, secondo la propaganda di regime, avrebbe, d’incanto, risollevato le sorti del Paese per il solo fatto di esistere) i nostri concittadini – gli stessi che ambiscono ad andare in pensione il più presto possibile – si interrogano, allarmati, sul significato di tre parole che rimbalzano sui quotidiani e sugli schermi tv a rappresentare il pensiero del nuovo ministro del welfare, Elsa Fornero: contributivo pro rata. Si sa, senza che vi sia una particolare ragione, il termine “contributivo” evoca scenari drammatici per il futuro delle pensioni degli italiani. Chi scrive ne ha una dimostrazione diretta: nel luglio 2008, con lo zelo del deputato neofita, ho presentato una proposta di legge (c.1299) che prevedeva, appunto, oltre all’introduzione di un pensionamento flessibile (in un range compreso tra 62 e 67 anni), l’applicazione pro rata del calcolo contributivo a tutti i lavoratori italiani. Successe l’Iradiddio: proteste, minacce di fuga dai posti di lavoro, tanto che taluni colleghi, sottoscrittori della mia pdl, si precipitarono a ritirare la loro adesione. Fui costretto a fare un comunicato in cui mi impegnavo, semmai il provvedimento avesse avuto un seguito, a stralciare la norma contestata. Naturalmente il primo a ignorare le mie proposte fu il ministro Sacconi, anche quando le rimisi a punto, nel 2010, in un disegno di legge bipartisan, di cui ero primo firmatario alla Camera, mentre Tiziano Treu lo era al Senato. Ma è inutile rivangare ciò che sarebbe potuto essere e non è stato. Concentriamoci sugli eventuali effetti concreti della proposta del nuovo ministro. Facendo preliminarmente un passo indietro, fino al 1995 quando venne varata la riforma Dini.



Allora si tracciò una linea di confine per separare il nuovo modello dalle misure della cosiddetta transizione. Lo spartiacque fu indicato nel 31 dicembre di quello stesso anno. Quanti, entro quella data, avevano maturato almeno 18 anni di anzianità assicurativa e contributiva rimanevano nel sistema retributivo; a coloro che iniziavano a lavorare dal 1° gennaio 1996 si applicava il nuovo criterio detto contributivo; per quanti si trovavano nella “terra di nessuno”, ovvero con meno di 18 anni di anzianità alla fine del 1995, si applicavano i due sistemi (il retributivo per gli anni trascorsi entro quella data, il contributivo per gli anni dal 1996 in avanti, mentre la pensione sarebbe risultata dalla somma dei due importi).



È bene, allora, spiegare brevemente le differenze tra i due sistemi. Con il calcolo retributivo la retribuzione di riferimento per il computo della pensione è – in generale, per i dipendenti – quella media degli ultimi dieci anni (con rivalutazione rispetto all’inflazione). Grazie a un periodo di riferimento tanto breve della retribuzione pensionabile (negli altri paesi si prendono in considerazione lunghi periodi di vita lavorativa) il sistema tende a garantire al pensionato un reddito equipollente a quello acquisito durante l’ultima fase di attività. È in conseguenza di questo sistema che si perpetuano, anche in quiescenza, condizioni di “privilegio” raggiunte solo a fine carriera. Ma anche le persone normali hanno ricevuto un beneficio dall’applicazione del retributivo. Si veda, in tal senso, la tabella allegata, da cui risultano inequivocabilmente, mettendo a confronto gli anni residui al pensionamento con la contribuzione versata, gli anni in cui le diverse categorie di lavoratori hanno fruito della pensione senza averne la corrispondente copertura contributiva.



Mentre nel retributivo vi è un certo numero di anni “regalati”, nel contributivo ciò non accade perché il sistema è pensato apposta per collegare il trattamento pensionistico ai contributi versati. Come funziona, allora, il calcolo contributivo? Tralasciando le altre differenze (tra le quali spicca in particolare l’esistenza di un massimale retributivo ai fini della contribuzione e della pensione) e trattando solo il caso dei lavoratori dipendenti, ogni anno viene accreditato il 33% della retribuzione (è il 20% per gli autonomi e il 27% per gli atipici), rivalutato sulla base del Pil nominale. A fine carriera si determina un montante contributivo che, moltiplicato per dei parametri ragguagliati all’età anagrafica stabilita per poter andare in pensione – denominati coefficienti di trasformazione, rivisti ogni tre anni in ragione dei tassi di mortalità – dà luogo alla pensione. Se passerà la riforma Fornero, quindi, dal 2012 in poi non vi sarà più il sistema retributivo puro: ai lavoratori, da quel momento in avanti – ecco il concetto del pro rata – si applicherà o il sistema misto o quello contributivo.

Ciò determinerà uno svantaggio insostenibile? Sicuramente no. Se i lavoratori che nel 1995 avevano un’anzianità inferiore a 18 anni hanno continuato a lavorare nel frattempo c’è da presumere che non siano lontani dal maturare i requisiti contributivi richiesti per andare in pensione di vecchiaia o di anzianità (anche nel sistema misto valgono a questo proposito le regole del retributivo). Ciò significa che, mediamente, aggiungeranno, agli anni conteggiati con il retributivo, 6-7 anni valutati con il retributivo. Questo sistema è certamente meno “premiante” del retributivo (si noti, infatti, la tabella), ma garantisce comunque un tasso di sostituzione adeguato, se vi è continuità di reddito e di lavoro. Tanto più che l’adeguatezza dei trattamenti è anche assicurata grazie all’innalzamento dell’età pensionabile, secondo le norme introdotte nell’attuale legislatura (se si lavora più a lungo, infatti, si acquisisce anche il diritto a pensioni più elevate).