Le idee del ministro Elsa Fornero sono certamente suggestive ed evocano la consistenza di un disegno organico che tenta di riannodare i fili della riforma Dini su due aspetti essenziali, prima smarriti, poi sempre sfuggiti all’attenzione dei successivi interventi del legislatore. Intendiamo riferirci all’applicazione pro rata del calcolo contributivo anche a quei lavoratori che furono “risparmiati” (e mantenuti nel retributivo) nel 1995 e al cosiddetto “pensionamento flessibile” all’interno di una fascia di età compresa tra un minimo di 63 e un massimo di 68/70 anni. Minimo e massimo che assorbirebbero anche le cosiddette finestre mobili e che sarebbero sottoposti all’aggancio automatico all’attesa di vita. Questa forma di pensionamento dovrebbe superare le diverse tipologie esistenti (vecchiaia e anzianità) ed essere unica anche per genere.
L’introduzione del contributivo pro rata, più che per gli effetti finanziari, è condivisibile soprattutto sul piano dell’equità. I suoi effetti si determinerebbero sugli anni intercorrenti dal 2012 al momento della quiescenza di quanti nel 1995 non avevano ancora maturato almeno 18 anni di anzianità e che, presumibilmente, hanno continuato a lavorare nei 16 anni che ci separano dall’entrata in vigore della riforma Dini. Ma i risparmi – vista la relativa incidenza sulle storie contributive delle persone – sarebbero modesti, anche se crescenti nel tempo. Alberto Brambilla ha calcolato su Il Corriere della Sera di ieri a quanto ammonterebbe la riduzione dell’assegno in funzione dell’età e degli anni mancanti al pensionamento, trascorsi appunto nel regime contributivo. Nel caso di un lavoratore dipendente che va in pensione a 58 anni, il taglio sarebbe dello 0,96% se il metodo contributivo si riferisse a un solo anno e del 9,55% se fosse applicato su 10 anni. Nel caso di un lavoratore autonomo della stessa età, si passerebbe dallo 0,35% al 3,50%. Sarebbero queste le riduzioni più elevate, perché l’incidenza diminuirebbe in relazione con il crescere dell’età al pensionamento. Nel caso di un dipendente di 65 anni, ad esempio, il taglio andrebbe dallo 0,70% a un anno fino al 7% a dieci anni. Se si trattasse di un lavoratore autonomo della stessa età l’assegno addirittura si incrementerebbe, sia pure di valori inferiori ad un punto. È comunque utile incoraggiare il ministro a risolvere un problema che meritava di essere affrontato già nel 1995 o in tempi immediatamente successivi.
Più complessa è la questione del pensionamento flessibile. Di certo tale soluzione sarebbe molto opportuna nel contesto del sistema contributivo una volta che fosse andato a regime. Ho dei dubbi sul fatto che possa essere adattato sic et simpliciter anche nella fase di transizione. Probabilmente alcuni anni or sono saremmo stati in tempo ad applicare il pensionamento flessibile anche nel retributivo e nel misto. Adesso però non si può evitare di tener conto dei cambiamenti intervenuti nell’attuale legislatura come la parificazione tra uomini e donne del requisito anagrafico di vecchiaia (dal 2012 nel pubblico impiego e nel 2026 in quello privato) nonché la “norma di chiusura” a 67 anni per tutti, sempre nel 2026.
Con le proposte di Elsa Fornero vi è il rischio di abbassare, nei fatti, l’età pensionabile. Ciò, è sicuramente vero per la pensione di vecchiaia degli uomini, in quanto il requisito anagrafico minimo, ora previsto, scenderebbe da 65 a 63 anni. Il medesimo “sconto” opererebbe, pure, per le lavoratrici del pubblico impiego, la cui età di vecchiaia salirà, secondo le disposizioni in vigore, a 65 anni dal 2012. Ma c’è di più. Il requisito contributivo, previsto dal progetto del neo ministro, sarebbe pari a vent’anni di anzianità, quale è adesso, per le prestazioni di vecchiaia. Inoltre, verrebbero assorbiti l’anno o i diciotto mesi di “finestra mobile”.
In sostanza, non solo si determinerebbe, in parte, un abbassamento del limite anagrafico, ma anche di quello contributivo, in cambio di un prolungamento, in pratica di un solo anno (da “61 + 1” a 63), del requisito dell’anzianità. Un lavoratore dipendente – che secondo le regole attuali, potrà andare, a regime nel 2013, in quiescenza anticipata a 61 anni (più uno di “finestra”) facendo valere quota 97, in seguito potrebbe farlo a 63 anni con appena vent’anni di versamenti. Così, un requisito anagrafico leggermente più rigoroso sarebbe vanificato da uno, contributivo, molto più generoso.
Resta il meccanismo degli incentivi/disincentivi. Ma consideriamo sbagliato mandare in pensione delle persone ancora giovani con prestazioni inadeguate. L’esperienza insegna che i lavoratori, nella generalità dei casi, vanno in pensione il prima possibile; poi magari continuano a lavorare avvalendosi del diritto di cumulare la pensione ad altro reddito. Molto meglio, allora, agire, nella fase residua di transizione, sui requisiti dell’anzianità rendendoli più rigorosi, in particolare – lo ripetiamo per l’ennesima volta – introducendo un limite anagrafico per i trattamenti con 40 anni di contributi a prescindere dall’età.
Chi scrive è stato tra i primi, già nel 2008, a proporre una forma di pensionamento flessibile (AC 1299) più o meno simile a quella indicata ora dal ministro. Sarebbe stato meglio che quella proposta avesse ricevuto precedente esecutivo maggiore attenzione. Ma oggi ritornare su quella impostazione aprirebbe forse anche problemi di copertura finanziaria; il che è meglio evitare.