È sfuggita all’attenzione dei commentatori, più interessati agli aspetti di eccessiva severità, in materia di pensioni, contenuti nell’articolo 24 del decreto legge dell’Areopago che governa il Paese. La novità è inserita in una norma programmatica, il comma 28, che affida a una Commissione di esperti incaricata di proporre, entro il 2012, possibili ulteriori forme di gradualità nell’accesso al trattamento pensionistico con il metodo contributivo. L’ultimo periodo del comma stabilisce che, entro il termine suddetto, saranno analizzate «eventuali forme di decontribuzione parziale dell’aliquota contributiva obbligatoria verso schemi previdenziali integrativi in particolare a favore delle giovani generazioni». È questa un’altra idea che la professoressa Elsa Fornero ha consegnato al ministro Elsa Fornero. Sul piano tecnico il procedimento è definito di opting out.



Elsa Fornero pubblicò persino un importante saggio su questo argomento, corredato di una proposta compiuta (lo storno di una quota fino all’8% dell’aliquota contributiva), insieme al suo maestro Onorato Castellino, il primo studioso che lanciò l’allarme pensioni alcuni decenni or sono. Si tratta di consentire a un lavoratore, in particolare se giovane e privo di un rapporto di lavoro dipendente (quindi nell’impossibilità di avvalersi del tfr per aderire a un fondo), di destinare al finanziamento di una forma di previdenza complementare una parte della sua contribuzione obbligatoria.



Potrebbe in questo modo, se lo riterrà, distribuire il proprio rischio previdenziale su di una quota pubblica a ripartizione e una privata a capitalizzazione, senza dover sostenere maggiori oneri (l’esperienza pratica dimostra che i giovani non si accostano ai fondi pensione proprio perché non dispongono di ulteriori risorse rispetto a quelle che sono tenute a versare alle gestioni obbligatorie). Mediante le soluzioni di opting out si otterrebbe certamente una copertura pubblica inferiore, ma sarebbe possibile ottenere rendimenti più generosi sui mercati.

L’operazione non è semplice e contiene qualche rischio, tanto che la norma prevede un concerto con gli enti gestori di previdenza obbligatoria e con le autorità di vigilanza operanti nel settore della previdenza. Occorre comunque del coraggio e della fiducia nelle proprie convinzioni (lo ha fatto anche chi scrive, nel pdl C. 1299) per immaginare che qualcuno, dopo i saliscendi dei mercati finanziari, possa scegliere di investire nel privato risorse destinate al sistema pubblico. Anni or sono, il Cnel ha rimesso a punto una posizione sulle proposte di opting out che, negli ultimi tempi, hanno arricchito il dibattito sul futuro del sistema pensionistico. Il giudizio complessivo, tuttavia, rimane critico per tanti motivi, meticolosamente spiegati.



In sostanza, i progetti sono interessanti, ma difficilmente praticabili; le loro controindicazioni bilanciano, in senso negativo, gli spunti di “verità” che essi contengono. In estrema sintesi, l’ipotesi a suo tempo avanzata da Castellino e dalla Fornero – ad avviso della Commissione del Cnel – oltre a essere onerosa per i conti pubblici, avrebbe creato due distinti modelli sulla base dell’iniziale opzione volontaria, con effetti non positivi sul mercato del lavoro. Un’altra proposta, molto in voga a suo tempo, presentata da Modigliani e Ceprini, si fondava, invece, su di un presupposto tutto da dimostrare – come il conseguimento di un tasso di rendimento reale annuo del 5-6% – e sulla concentrazione, in capo a un’agenzia pubblica, di un ammontare tanto consistente di risorse “capitalizzate” da produrre conseguenze distorsive sui mercati finanziari.

Sembrava, invece, a parere del Cnel, maggiormente percorribile l’idea, suggerita da Gianni Geroldi, di coniugare ripartizione e capitalizzazione, sullo zoccolo di un prelievo contributivo allineato intorno all’aliquota del 23%, sia per i lavoratori dipendenti che per quelli autonomi. Val la pena, a questo punto, di sottolineare taluni aspetti della discussione che altrimenti rischiano di restare nell’ombra.

Alla previdenza complementare, per tante ragioni, è stata affidata una funzione modesta nell’economia dei trattamenti complessivi. E, finora, tutti i tentativi di ampliare l’ambito di intervento della “capitalizzazione all’italiana” si sono infranti miseramente contro l’eccessiva onerosità del sistema obbligatorio, che nessuno, finora, ha potuto, voluto o saputo ridimensionare in modo adeguato. Parimenti, non è casuale che tutte le proposte di opting out prendessero le mosse (sia pure in termini e tempi diversi) dall’esigenza di ridurre le aliquote contributive della ripartizione, allo scopo di consegnare risorse alle forme di capitalizzazione (e di favorire, nel contempo, lo sviluppo e l’occupazione).

L’impegno culturale della proposta contenuta nel comma 28 va dunque apprezzato, nel momento in cui il Governo Monti ha impresso una vera e propria svolta nel settore della previdenza. In sostanza, anche per gli architetti delle nostre pensioni vigono criteri analoghi a quelli riguardanti la costruzione degli edifici. Non si parte dal tetto, ma dalle fondamenta. Così, si può destinare ai fondi pensione a capitalizzazione non solo il solito tfr tappabuchi, ma anche il montante corrispondente ad alcuni punti di aliquota contributiva (in caso contrario, l’onere congiunto del sistema pubblico e di quello privato diverrebbe ancor più insostenibile), proprio perché sono state individuate, contestualmente, un insieme di misure capaci di ridurre la spesa pensionistica in quantità tendenzialmente equipollente al contenimento del prelievo. Altrimenti, si sarebbe incrementato soltanto il disavanzo.