Anche nel campo delle relazioni industriali il peggior sordo è colui che si rifiuta di ascoltare. Più Sergio Marchionne si sforza di confermare gli impegni del gruppo in Italia, più la Fiom e la Cgil si ingegnano a prendere le distanze e a screditare le intenzioni dell’ad italo-canadese.

In sostanza, i “sindacati del dissenso” non si sforzano di chiarire gli aspetti, a loro avviso, controversi del programma Fabbrica Italia; il loro principale cruccio è quello di dimostrare che la Fiat ha mentito e che loro avevano e hanno ragione. Ovviamente non sono in grado di proporre una linea alternativa, giacché non bastano gli scioperi – generali e non – a richiamare investimenti e a “far girare le macchine” nel difficile contesto dell’economia globalizzata. A loro basta continuare ad avvelenare i pozzi, a segare il ramo sul quale potrebbero agevolmente prendere posto a fianco degli altri sindacati e dei lavoratori.



Sia a Palazzo Chigi, sabato scorso, sia ieri, durante l’audizione in Commissione Attività produttive a Montecitorio, Marchionne ha confermato che la Fiat non fuggirà dall’Italia. È intenzionata a restare, nonostante le notevoli criticità; e a farlo attraverso il potenziamento di importanti stabilimenti nei quali è disposta a investire significative risorse (per la prima volta non chiedendo aiuto allo Stato) e a collocarli all’interno di una prospettiva di crescita e di internazionalizzazione.



Poi, che Detroit avrà un ruolo primario per un gruppo che si è insediato stabilmente nel Paese-guida del mondo sviluppato e nella capitale mondiale dell’industria dell’auto, e che lì ha ottenuto un successo insperato, era prevedibile fin da quando venne avviata l’operazione joint venture con la Chrysler. La centralità Usa non significa declino inesorabile del Lingotto, che può meglio esercitare la sua vocazione nello scenario europeo che rimane strategico.

Anche il Governo è stato di parola. Sabato aveva promesso che poche ore dopo vi sarebbe stata la sottoscrizione dell’accordo di programma riguardante le re-industrializzazione di Termini Imerese; così è stato, nonostante le critiche astiose della Fiom, per la quale non era importante risolvere il problema di quei lavoratori, magari con altre valide soluzioni imprenditoriali, ma obbligare la Fiat a farsene carico direttamente.



 

Sia nell’incontro con il Governo, sia nel confronto con la Commissione, Marchionne ha posto un solo problema: quello della governabilità degli stabilimenti. Sull’uso della parola “governabilità” si sono avute, da parte dei “sindacati del dissenso” delle battute infelici. Ma il problema esiste. E la Fiat ha cercato di risolverlo nell’unico modo possibile: quello di liberarsi di un’organizzazione sindacale disposta soltanto a condurre – sempre e comunque – una guerra pregiudiziale. Ma fino a che punto il problema può essere affidato unicamente alle strutture organizzative di Cisl e di Uil e alla loro determinazione nel resistere nel mezzo di un aspro confronto con la Cgil in un contesto in cui persino molte imprese sono disposte a sottrarsi alle direttive della Confindustria, pur di trovare un modus vivendi con la Fiom?

 

Marchionne – è vero – non ha chiesto un solo euro di finanziamento pubblico. Ma dallo Stato, forse, pretende qualche cosa di meglio e in più sul terreno della governabilità. In fondo, tocca al legislatore fare chiarezza su di una interpretazione (troppo estensiva) del concetto di diritti inderogabili, a partire dal fondamentale diritto di sciopero, il quale – secondo la Costituzione – si esercita pur sempre nell’ambito delle leggi ordinarie che lo regolano.