Facciamo un caso concreto. Un signore ha in uso due appartamenti: il primo si trova nel centro di una grande città, è corredato di ogni comodità, ha dei vicini civili e cordiali con cui il nostro intrattiene rapporti di rispetto e amicizia; l’altro è situato in periferia, in un quartiere malservito, malfamato e caratterizzato dalla presenza di tanti casi sociali. Quando il signore si muove in quei vicoli viene insultato e vilipeso, mentre i vicini raccolgono firme per cacciarlo ogni volta che esso si azzarda a chiedere ai propri dipendenti di lavorare.
Chiunque, nei panni di quel signore, prima o poi, si porrebbe il problema di dove vivere stabilmente. Ma non è questo il caso di Sergio Marchionne: un manager, alla testa di una grande impresa multinazionale, compie le proprie scelte sulla base di effettive convenienze economiche.
Certo, per andarsene contano anche le propensioni personali, come ha evidenziato Bruno Vitali della Fim-Cisl (“Se continua il clima di ostilità verso la Fiat, dalla Fiom al mondo politico, diventa quasi logica una soluzione del genere”). Il fatto è che è proprio la dimensione sempre più multinazionale della Fiat-Chrysler a suggerire una diversa distribuzione della «intelligenza strategica» del gruppo.
Basta osservare su di una qualsiasi cartina geografica la collocazione degli stabilimenti Fiat nel mondo per comprendere che non può bastare più una sola “stanza dei bottoni” al Lingotto. Torino manterrà (se glielo lasceranno fare) un ruolo centrale in Europa, che è pur sempre un mercato in cui il gruppo è intenzionato a espandersi. Ma vi saranno altri centri altrove: compresa Detroit, un’area connotata da una fortissima vocazione industriale dell’auto. Che senso avrebbe smantellare quelle vocazioni ormai secolari per trasferirle a Torino?
Il problema, allora, non è quello di chiedere a Marchionne delle scelte non solo improduttive, ma insensate. Tocca al sistema Italia valorizzare un piano di investimenti importanti con il mantenimento, a Torino, di un centro direzionale adeguato, in grado di valorizzare competenze maturate con l’esperienza e la tradizione.
Ovviamente, si tratta di sviluppare dei confronti seri e responsabili (come si appresta a fare il Governo nei prossimi giorni, con la partecipazione di Silvio Berlusconi) con il vertice del gruppo, pronti a valutare i problemi e a trovare delle soluzioni.
È fattore di disturbo, invece, il solito atteggiamento della Fiom e della Cgil e delle forze politiche che reggono loro la coda. Non si va da nessuna parte agitando la clava, usando con arroganza toni intimidatori, come se le minacce e le proteste potessero indurre Sergio Marchionne ad abbandonare delle prospettive e dei programmi ritenuti necessari per lo sviluppo degli stabilimenti.
In un mondo in cui è libera la circolazione dei capitali, come si fa a pensare di trattenere nel nostro territorio un’azienda multinazionale a colpi di scioperi e di insulti? Eppure, tanti a sinistra sembrano contenti per aver trovato conferma delle loro tesi (“Noi l’avevamo detto”). Come se, a non sottoscrivere le intese di Pomigliano d’Arco e di Mirafiori e a unirsi tutti alla novena degli improperi (una pagina comunque vergognosa nella storia delle relazioni industriali e delle performance dei nostri intellettuali) si sarebbe convinto Marchionne a rinchiudersi nel Lingotto.
Che i problemi sarebbero stati quelli incontrati negli ultimi mesi (e che si sarebbero presentati uno di seguito all’altro) lo si era compreso dal momento in cui la Fiat aveva varcato l’Oceano (mentre era fallita lajoint venture europea con Opel). Ma se anche fosse stato possibile impedire quell’operazione, si sarebbe condannato sicuramente a morte un gruppo che adesso si candida trovare posto all’interno del difficile futuro dell’industria dell’auto nel mondo.