Sabato prossimo ricorrerà il nono anniversario dell’assassinio di Marco Biagi. Come negli anni scorsi, in quella giornata si svolgeranno tante importanti iniziative, a partiredal Convegno internazionale organizzato a Modena, presso la Fondazione intestata al professore. Prima di quell’evento, Biagisarà ricordato a Roma dall’allievo prediletto, Michele Tiraboschi, e dal ministro Maurizio Sacconi, il quale sarà presente anche a Modena sabato.

Nel pomeriggio del 19 marzo nella redazione de Il Resto del Carlino verrà consegnato il Premio Biagi alle associazioni di volontariato che si sono particolarmente distinte nella loro meritoria attività a favore dei soggetti più deboli e bisognosi, le cui domande sono state valutate da una apposita Commissione giudicatrice. Vi saranno poi le celebrazioni religiose e alla fine la passeggiata in biciclettadalla stazione a via Valdonica, lungo il medesimo tragitto compiuto dal professore in quella tragica serata di incipiente primavera.

È sorprendente – e chi gli fu amico non può che compiacersene – osservare come i suoi cari e gli amici siano stati capaci di coltivare tanto a lungo la testimonianza di Marco, intessendola di azioni concrete dedicate allo studio e alla formazione dei giovani. Ecco perché Marco Biagi è ancora vivo tra noi. Non solo nella memoria, ma nelle opere. Se è vero che i morti ci osservano dai verdi pascoli del Signore, credo che Marco, ora raggiunto dal padre Giorgio, sia sereno e soddisfatto. I suoi figli sono due meravigliosi ragazzi impegnati – con successo- nello studio del diritto sulle orme del padre, guidati da una “madre coraggio”, riservata e indomita, che ha saputo raccogliere e motivare gli allievi e i collaboratori del marito in una Fondazioneprestigiosa e qualificata sul piano internazionale, fucina di giovani talenti nel campo della ricerca.

Intorno alla figura di Biagi si è dissolto quel clima d’odio che aveva reso struggenti gli ultimi mesi di vita. Solo qualche epigono di un passato travolto dalla storia e completamente emarginato dalla lotta politica si ostina a ripetere, inascoltato, le solite false e stucchevoli litanie.Soprattutto, è l’insegnamento di Marco che continua a essere vivo e fecondo e a orientare l’evoluzione del diritto sindacale e del lavoro, grazie al ministro Maurizio Sacconi e a quel gruppo di amici che si trovano in posizioni-chiave in Parlamento o al ministero.

 

Non solo sono stati ripristinati quegli istituti della legge Biagi che nella passata legislatura furono abrogati in nome di un ingiustificato furore ideologico (al contratto di somministrazione nei provvedimenti del Governo è stato affidato un ruolo importante nelle politiche per l’occupazione), ma molte delle novità più importanti sono il frutto di quell’elaborazione – attenta a quanto accade sullo scenario europeo e internazionale e protesa a risolvere problemi pratici – che era la caratteristica principale dell’opera di Marco.

 

Esiste ed è operante dal 2009 un nuovo modello di relazioni industriali, che ha superato l’impatto di una stagione di rinnovi contrattuali, nonostante l’ostilità preconcetta della Cgil. Da ultimo, hanno fatto il loro ingresso nel mondo del lavoro nuove tipologie di conciliazione e di arbitrato in tema di controversie di lavoro (con l’esclusione del licenziamento) che sono lo strumento principale di risoluzione delle controversie in tutti i Paesi dotati di un sistema sviluppato di relazioni industriali e che solo da noi non hanno potuto mai decollare in conseguenza di un’ottusa concezione della statualità del diritto che grandi maestri come Federico Mancini e Gino Giugni sottoposero a critica fin dagli anni ’60 del secolo scorso.

Nella sua “Introduzione allo studio dell’autonomia collettiva” del 1960, Gino Giugni scriveva in tema digiurisdizione privata intersindacale: “Può così avvenire che, in questa zona grigia tra il diritto dei privati e l’ordinamento statuale, in cui si svolge il rapporto di interferenza e di tensione tra l’autonomia originaria e le autonomie derivate dal sovrastante potere dell’organizzazione politica, facciano la loro comparsa istituti predisposti a realizzarequelle funzioni di dichiarazione del diritto, di composizione eteronoma dei conflitti o addirittura di applicazione della sanzione nelle quali in rapporto a peculiari atteggiamenti dottrinali o a specifiche strutture positive si è di volta in volta ravvisata l’essenza della giurisdizione. […] Tra l’arbitrato come pure espressione di autorità sociale […] e l’arbitrato rituale che […] è un istituto schiettamente processuale e in un certo senso pone il processo nelle mani dei privati, si inseriscono quelle ibride strutture […] di cui lo Stato non sfiora che la cornice esterna, percepisce effetti giuridici rilevanti ma ignora la specifica finalizzazione istituzionale. […] È al contrario – continuava Giugni – la spontanea risposta dell’ambiente sociale alle sempre più complesse esigenze della tecnica e della produzione, all’enuclearsi di forme di permanente contatto sociale, di fronte alle quali l’idea dell’individuo isolato di fronte all’apparato di tutela dello Stato è tramontata per sempre”.

 

Anche Marco Biagi, nel “Libro bianco sul mercato del lavoro” del 2001, si era occupato della materia con la medesima impostazione culturale di Giugni: “Tutte le controversie di lavoro potrebbero essere amministrate – scriveva – con maggiore equità ed efficienza per mezzo di collegi arbitrali. Con particolare riferimento al regime estintivo del rapporto di lavoro indeterminato, si potrebbe anche considerare a riguardo la possibilità di conferire allo stesso collegio arbitrale di optare per la reintegrazione o per il risarcimento, avuto riguardo alle ragioni stesse del licenziamento ingiustificato, al comportamento delle parti in causa, alle caratteristiche del mercato del lavoro locale”.

Chi scrive era molto amico di Marco ed è stato fiero in tutti questi anni di proseguire il suo lavoro, anche svolgendo il ruolo di deputato della Repubblica. In questo nono anniversario il ricordo di Marco mi porta ad appropriami conclusivamente di una citazione del premier inglese David Cameron: “Ci sono cose che fai per dovere […]. Ma ci sono cose che fai perché sono la tua passione. Le cose che ti infiammano al mattino, che ti guidano e che sei sicuro possano realmente fare la differenza per il Paese che ami.

 

Per me è stato un grande onore aver svolto il ruolo di relatore del “collegato lavoro” fino a condurlo all’approvazione finale. In onore e in memoria di un amico ucciso sotto casa nove anni or sono soltanto perché voleva riformare il mercato del lavoro.