I lettori lo avranno notato: sul caso Fiat è sceso il silenzio. L’Italia è veramente uno strano Paese, dove scoppiano polemiche che sembrano destinate ad aprire nuove “guerre dei cent’anni”; poi, all’improvviso, tutto finisce nel dimenticatoio e il Circo Barnum mediatico e politico si mette alla ricerca di un altro “scandalo” a cui rivolgere le proprie attenzioni.

Nei giorni scorsi, ad esempio, la Cai, ex-Alitalia, ha concluso un accordo con i sindacati (tutti i più importanti, Cgil inclusa) che prevede l’esodo (invero soft) di almeno 700 dipendenti (compensato dalla stabilizzazione di circa 150 precari). Benché la vicenda Alitalia avesse sollecitato in passato numerose polemiche politiche, questa volta la vicenda è stata archiviata in totale normalità.

Gli accordi della newco Fiat-Chrysler continuano a far discutere. Nelle iniziative connesse alle celebrazioni del IX Anniversario dell’uccisione di Marco Biagi, quelle intese sono state indicate dal ministro Maurizio Sacconi come modelli da prendere ad esempio per le nuove relazioni industriali. A dire la verità non sembra che quelle esperienze siano già in grado di diffondersi come sarebbe auspicabile. La struttura della contrattazione nazionale continua a prevalere, anche quando – come nel caso del settore del commercio – si è profilata un’ulteriore intesa senza l’adesione della Cgil.

Già, i contratti nazionali. Gli annali ricordano una battuta del Generale De Gaulle, riferita alla Francia: «È impossibile governare un Paese in cui si producono più di quattrocento tipi di formaggio». Noi, in quanto a formaggi, non ci facciamo certo mancare nulla. Ma siamo sicuramente competitivi con i nostri cugini d’Oltralpe sul numero dei contratti nazionali di lavoro. Nessuno li ha mai contati tutti: si dice, però, che siano circa quattrocento.

Molti hanno alle spalle una lunga storia che risale al fascismo, quando le categorie produttive costituivano la struttura portante del regime corporativo. Di contratti nazionali si era parlato, nei mesi scorsi, nell’ambito delle polemiche sul caso Fiat-Chrysler, quando Sergio Marchionne era accusato di voler uscire dal contratto dei metalmeccanici (e dalla Confindustria) per farsene uno in proprio per il settore dell’auto.

 

Un’intenzione siffatta (dettata dall’esigenza di avvalersi di norme contrattuali e organizzative più adatte alla realtà produttiva dell’auto, nello stesso tempo più uniformi per i diversi stabilimenti distribuiti nel mondo) non pregiudicava affatto i diritti dei lavoratori. Ci conforta in questa valutazione un rapido esame, sul sito del Cnel, dell’archivio della contrattazione collettiva nazionale.

 

Il Belpaese non annovera solo santi, martiri, poeti, navigatori, ma ha allevato e dà lavoro a fior di operatori sindacali, in una logica bipartisan. Si avvalgono di contratti nazionali specifici, tra gli altri, i seguenti settori merceologici: fotoincisione, giocattoli e modellismo, lavanderie e tintorie, occhiali, ombrelli e ombrelloni, pelli e succedanei, penne e spazzole, retifici da pesca, oleraria e margarina, lampade e valvole termoioniche, acconciatura estetica e tatuaggi, ex ambulanti, florovivaisti, attività funebri e cimiteriali, sacrestani e affini, autoscuole e scuole di nautica, autonoleggio, autorimesse, funivie terrestri e aeree.

Spesso ognuno di questi settori ha un contratto che riguarda le aziende industriali e un altro relativo alle Pmi. I marittimi, di contratti nazionali ne hanno quattro (crociera, carico, equipaggio italiano ed equipaggio straniero); altri quattro sono previsti nell’ippica (il trotto, ad esempio, non vuole confondersi con il galoppo). Sotto la voce “aerei” si trovano ben sei contratti. Ma i piloti degli elicotteri stanno per loro conto.

 

Ovviamente abbiamo parlato solo di alcune branche del settore privato. Quello pubblico è meno frantumato, e lo sarà ancora meno quando entrerà pienamente in vigore la riforma Brunetta. Ovviamente, questi assetti potrebbero essere razionalizzati. Non è però privo di significato che tale impostazione abbia resistito per tanti decenni. E che tanti “nuovi lavori” – si pensi ai ricamatori di tatuaggi – abbiano scelto un percorso autonomo.

 

Sarà consentito allora riconoscere ai lavoratori dell’auto ciò che permesso, da sempre, ai florovivaisti, ai becchini e ai sacrestani?