Si può fare finta di ignorare il problema per motivi di opportunità politica o di pregiudizio ideologico, ma le norme che regolano il licenziamento individuale, ai sensi dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori, costituiscono un impedimento di rilievo peril mondo delle imprese, un ostacolo all’incremento dell’occupazione nonché un handicap sul versante della competitività, essendo l’obbligo di reintegro previsto soltanto dalla nostra legislazione.
Se un datore di lavoro è indotto a interrogarsi a lungo prima di procedere a una nuova assunzione, ciò significa che il sistema non funziona. L’efficacia reale della tutela contro il licenziamento ingiustificato è poi – sicuramente – uno dei motivi che hanno determinato, nel tempo, una struttura prevalente di piccole imprese, impegnate a sottrarsi ai vincoli di una legislazione sindacale insostenibile.
La legislazione attuale stabilisce che il giudice può ordinare il reintegro nel posto di lavoro dei dipendenti colpiti da licenziamenti ingiustificati nelle aziende con più di 15 occupati. Questa situazione – anche a causa del cattivo funzionamento della giustizia – è considerato un vincolo ulteriore per il sistema delle imprese.
Nel 2001, il Governo Berlusconi provò a revisionare la materia inserendo in undisegno di legge delega alcune modifiche. Fermo restando la nullità del licenziamento discriminatorio (in violazione dei diritti fondamentali dei lavoratori), veniva prevista la sospensione sperimentale – solo per alcuni anni – della reintegrazione giudiziaria nel posto di lavoro (sarebbe rimasto solo il risarcimento del danno) nei seguenti casi: a) trasformazione a tempo indeterminato del rapporto di lavoro a termine; b) imprese che escono dalla economia sommersa; c) aziende che, assumendo nuovi occupati, superano il limite di 15 dipendenti.
In sostanza, si trattava di promuovere una stabilizzazione del mercato del lavoro, anche attraverso una migliore articolazione della tutela contro i licenziamenti. Infatti, la disciplina di cui all’articolo 18finiva per rappresentare un ostacolo in più per le imprese interessate, che potevano essere indotte o a non assumere o a tenersi della manodopera precaria o a non regolarizzare la propria posizione. Inoltre, la delega prendeva a riferimentolavoratori esclusi dalla disciplina dell’articolo 18, ai quali, pertanto, non veniva sottratto alcun diritto. Secondo le proposte del Governo, essi avrebbero potuto contare, almeno, su di un intervento risarcitorio, oltre che su di una stabilizzazione di talune fattispecie di lavoro.
Le proteste della Cgil(con la Cisl e la Uil il Governo era riuscito a trovare un punto di intesa, riducendo a una le fattispecie previste) determinarono l’affossamento della norma di revisione. Da allora, nessuno si è più azzardato a riaprire quella problematica, fino a pochi giorni or sono, quando nel corso di un seminario promosso dalla Fondazione De Benedetti, la presidente di Confindustria Emma Marcegaglia ha evocato la necessità di una maggiore flessibilità in uscita dal rapporto di lavoro che potesse, magari, compensare una riduzione di quella un po’ eccessiva in entrata.
Subito, Sergio Cofferati, l’eroe delle “radiose giornate” del 2001-2002, è insorto in nome della difesa dei diritti della persona. Davvero ha ancora un senso una norma siffatta? Alcune argomentazioni “riformatrici” ci sembrano inconfutabili. Innanzitutto, la disciplina del licenziamento di cui alla legge n. 300/1970 si applica in un ambito minoritario (benché consistente) del mondo del lavoro dipendente. E quando si tratta di diritti fondamentali vale la regola secondo la quale ciò che non è generalizzabile (nessuno pensa più di estendere l’applicazione dell’articolo 18 alle micro-imprese, dopo il clamoroso fallimento del referendum che si proponeva tale estensione) finisce per diventare un privilegio.
Si sostiene che nella piccola azienda è più forte l’intuitus personae (ovvero il rapporto fiduciario tra datore e lavoratore): ma basta questa realtà per giustificare un risarcimento patrimoniale (di cui alla legge n. 108/1990) per il licenziamento ingiusto, quando lo si ritiene inaccettabile nel caso di un’impresa con più di 15 dipendenti? Ed è equo trattare il datore di lavoro che impiega 16 persone come se fosse la Fiat? I giuristi ci insegnano che, nelle relazioni di natura obbligatoria, vige un principio generale del diritto: nemo ad factum cogi potest (nessuno può essere costretto a eseguire un’azione contro la sua volontà). In sostanza, se un capomastro si rifiuta di ristrutturare l’appartamento come si era impegnato a fare o un pittore non esegue il ritratto del nonno commendatore, il giudice non può condannarli a compiere l’opera, sotto la vigilanza dei carabinieri,ma soltanto a risarcire il danno. Eppure, tale principio non vale quando si tratta del rapporto di lavoro.
Sarebbe sufficiente, invece, confermare (come prevede la legge n. 604/1966) la nullità dei licenziamenti determinati da motivi di carattere politico, sindacale o religioso e risolvere gli altri casi di licenziamento non giustificato sul piano della “pena” patrimoniale e attraverso una snella procedura di conciliazione e arbitrato. Del resto, l’articolo 18 dello Statuto è uno dei motivi fondamentali dell’esistenza di due mercati del lavoro divaricati: il primo, quello tutelato, composto dai lavoratori più anziani e praticamente a esaurimento; il secondo, quello precario, trasformato in un limbo della flessibilità in cui vagano a lungo le “anime morte” dei giovani lavoratori.
Oggi, grazie all’irragionevole intransigenza dei sindacati, abbiamo delle leggi che garantiscono l’inamovibilità di alcuni settori del mondo del lavoro e l’incertezza assoluta di altri. Le prerogative degli insiders sono strettamente connesse alla assenza dei diritti per gli outsiders. Non ci vorrebbe molto a capire, invece, che i nostri ragazzi vivono da precari fino a un’età in cui ci sarebbe bisogno di certezze (quando “si mette su famiglia”), proprio a causa della rigidità della condizione di coloro che hanno avuto la fortuna di entrare nel mercato del lavoro quando l’economia tirava e si considerava lo sviluppo come un processo continuo e ininterrotto.
In sostanza, le imprese cercano la mobilità in entrata per averla anche in uscita. Se la risoluzione del rapporto di lavoro fosse considerata un evento fisiologico, non ci sarebbe bisogno di tutta quella pletora di strumenti di flessibilità che sono stati individuati negli ultimi anni. Il rapporto a tempo indeterminato sarebbe praticamente quello normale. Basterebbe un solo articolo del tenore che riportiamo di seguito: «Al quinto comma dell’articolo 18 della legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni, è aggiunto, in fine, il seguente periodo: “Ferma restando la nullità dei licenziamenti discriminatori ai sensi di quanto stabilito dall’articolo 4 della legge 15 luglio 1996, n. 604, e dall’articolo 3 della legge 11 maggio 1990, n. 108, è riconosciuta anche al datore di lavoro, soccombente in giudizio, la facoltà di corrispondere al prestatore di lavoro in sostituzione della reintegrazione nel posto di lavoro un’indennità a titolo di risarcimento del danno, il cui importo è fissato dal giudice in misura non superiore a quindici mensilità di retribuzione globale di fatto”».