A ridosso della manifestazione dei precari del 9 aprile, con un articolo su Il Corriere della Sera Pietro Ichino, Luca Cordero di Montezemolo e Nicola Rossi si sono presi la briga di riaprire il dibattito sulle possibili soluzioni alla mistica del cosiddetto precariato.
Le loro considerazioni contengono aspetti corretti e condivisibili: i giovani sono invitati a non ricercare la prospettiva della stabilità nella scuola o nella pubblica amministrazione, evitando per sé, in questa maniera, una forma perniciosa di autoinganno, perché quelle porte non si spalancheranno mai più come nel passato. Inoltre, è condivisibile un’altra considerazione: se la flessibilità in entrata è eccessiva (e grava soprattutto sui giovani) ciò dipende soprattutto dalla mancanza di un’adeguata flessibilità in uscita.
Le proposte della trojka (ma che cosa ci fa Luca di Montezemolo insieme a Rossi e Ichino?) hanno intercettato l’interesse di Gianfranco Fini e di Fli, che non hanno perso tempo ad ammettere che, in quel contesto, diventerebbe non solo necessario ma anche coerente sottoporre a revisione l’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori del 1970. Ma sono le terapie a non convincere del tutto. La proposta è sostanzialmente riconducibile al cosiddetto contratto unico a tutela differenziata a suo tempo lanciata da Tito Boeri e da lavoce.info.
Secondo tale proposta, il rapporto di lavoro normale sarebbe a tempo indeterminato, mentre la tutela contro la risoluzione ingiustificata acquisterebbe efficacia reale (con tanto di reintegra nel posto di lavoro) solo dopo alcuni anni, regolati invece dal criterio del risarcimento del danno. Un’impostazione siffatta è inadeguata per tanti motivi. È discutibile, infatti, voler ricondurre, forzatamente, qualsiasi lavoro all’interno di un rapporto alle dipendenze a tempo indeterminato (magari preceduto da un periodo di apprendistato), dimenticando che il contratto a termine o a progetto hanno un profilo e dei contenuti specifici, in quanto corrispondono a un preciso fabbisogno della domanda e dell’offerta di lavoro.
Il contratto a termine ha alle spalle una storia lunga e costituisce uno strumento regolatore di rapporti che non possono essere disciplinati altrimenti (si pensi, ad esempio, al lavoro stagionale che è presente in tanti settori dell’economia). Per favorire l’occupazione in coerenza con le esigenze di flessibilità dei processi produttivi una direttiva dell’Ue ne ha ampliato la possibilità di utilizzazione da parte delle imprese.
Successivamente, la legge n. 247 del 2007, ha introdotto il limite massimo di 36 mesi, ma l’istituto del lavoro a termine non è eliminabile dall’ordinamento giuridico. Lo stesso discorso potrebbe essere fatto per la somministrazione, il lavoro a chiamata (le due forme di lavoro che la sinistra voleva abolire) o quant’altro. È sbagliato ritenere che tutti i contratti a termine, tutte le collaborazioni o le altre forme di lavoro siano un pretesto per eludere il principio della stabilità. Se ci sono degli abusi questi vanno perseguiti in quanto tali.
Il Governo, nel Collegato lavoro, ha voluto rafforzare il metodo della certificazione, come procedura di prevenzione rispetto al ricorso per via giudiziaria. Il fatto che la più recente legislazione abbia voluto allargare le tipologie dei rapporti di lavoro – in linea con la legislazione europea – risponde a precise esigenze operative che siano in grado di regolare in modo più adeguato specifiche situazioni lavorative. È solo un argomento di polemica spicciola quella di accusare la legislazione sulla flessibilità di aver moltiplicato a dismisura i rapporti di lavoro, come se fosse possibile e utile semplificare il tutto con il contratto unico a tempo indeterminato. Tanto che, se si interpellassero i presentatori della proposta, ognuno di loro riconoscerebbe l’utilità di preservare, magari con qualche limite in più, almeno il rapporto di lavoro a termine e forse anche altre particolari tipologie.
Di conseguenza, il contratto unico si profila come una riforma di quello a tempo indeterminato, che – se abbiamo ben compreso l’impianto della proposta – si caratterizzerebbe come la somma di tre distinti segmenti: nel primo, per un certo numero di anni, non vi sarebbero particolari tutele, poi si passerebbe a un modello di tutela obbligatoria e infine allo step della tutela reale (con tanto di reintegra). Sarebbe sbagliato ignorare che un’impostazione siffatta rappresenterebbe un passo avanti rispetto alla situazione vigente, ma il problema non sarebbe risolto.
L’anello che manca è una riforma equa ed equilibrata dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori che preveda la reintegra soltanto nei casi di licenziamenti discriminatori, fermo restando il risarcimento del danno nelle altre fattispecie. Anche il Governo deve trovare il coraggio di rimettere all’ordine del giorno questo tema. Sarebbe il modo per completare le normative contenute, a tal proposito, nel Collegato lavoro, il quale non si limita, come abbiamo già ricordato, a rafforzare la certificazione per tutte le tipologie di lavoro, ma dispone che i giudici ne tengano conto nel giudizio, in parallelo con la cosiddetta tipizzazione delle cause di licenziamento, nel senso che gli stessi giudici sono tenuti a tener conto, in caso di licenziamento, delle declaratorie previste per il giustificato motivo e la giusta causa, indicate nella contrattazione collettiva.