Lunedì scorso, a Milano, Gi Group ha presentato le conclusioni di una ricerca sul futuro del lavoro (e sul lavoro del futuro) nei prossimi cinque anni, costruita rivolgendo una serie di domande a dei panelist individuati tra persone particolarmente esperte della materia e su operatori del settore. Attraverso le risposte si è costruita una scaletta, per ognuno dei filoni della ricerca, con l’indicazione del giudizio della condizione di partenza, delle previsioni del cambiamento atteso e di quello che sarebbe necessario.
La ricerca finisce per assumere l’impresa – con le scelte a cui è chiamata – come principiale protagonista di una strategia del cambiamento in grado di ampliare l’ambito della contrattazione decentrata, di rendere più flessibile l’organizzazione del lavoro e di motivare, in una logica di maggiore partecipazione a valori comuni, le maestranze nei confronti degli obiettivi dell’impresa. Intervenendo nel corso della tavola rotonda, chi scrive ha sostenuto che, alla ricerca mancava un approccio indispensabile: non saranno soltanto le scelte delle imprese a determinare il “futuro del lavoro”, ma sarà anche l’andamento del mercato del lavoro a condizionare le chances che le aziende avranno nei prossimi cinque anni.
In altre parole, le aziende potranno contare su di una manodopera idonea – sul piano qualitativo e quantitativo – a fare fronte al cambiamento? La risposta a questa domanda dipende da molti fattori tra loro interdipendenti: l’effetto demografico, innanzitutto.
Una stima dell’offerta di lavoro contenuta nel Rapporto sull’immigrazione a cura del Ministero del Lavoro e delle Politiche sociali da’ conto del classico rovesciamento della piramide demografica: pur nel quadro di una diminuzione complessiva dello 0,9%, tra il 2010 e il 2015 – i cinque anni considerati nella ricerca – l’offerta di lavoro delle coorti in età compresa tra 15 e 24 anni diminuirà del 13,3%, quella compresa tra 25-54 del 3,3%, mentre quella tra 54 e 65 anni crescerà del 20,7%.
Vi è quindi l’esigenza di porsi il problema (sono in corso alcune buone pratiche in altri Paesi europei) di creare condizioni di lavoro adatte a lavoratori maturi (per non parlare di anziani), che resteranno più a lungo nel mercato del lavoro grazie all’allungamento dell’età pensionabile in atto nelle riforme pensionistiche. Ma perché si realizzi l’obiettivo del mantenimento più a lungo al lavoro, non sono sufficienti delle norme di carattere previdenziale, ma occorre che le condizioni del lavoro rendano effettivo e utile questa più lunga permanenza. Esiste, poi, il problema da sempre accantonato (anche se ormai fa capolino da tutte le parti) del lavoro manuale rifiutato dalle giovani generazioni.
Da questo angolo di visuale va subito notato che, secondo uno studio del Censis, dal 2005 al 2010 sono usciti dal mercato del lavoro, nell’ambito delle attività di carattere manuale quasi 850mila lavoratori italiani. Al loro posto sono entrati oltre 700 mila stranieri, il cui peso è aumentato di circa l’84%. In sostanza prende sempre più piede una dicotomia – tanto influente nella determinazione della condizione giovanile – in cui la disoccupazione e l’inoccupazione assumono sempre più un profilo nazionale e una forte caratura intellettuale, mentre la nuova occupazione riguarda sempre più gli stranieri almeno per quanto concerne il lavoro manuale.
È una discrepanza che sta diventando insostenibile. Al fine di contrastare questo processo, il Governo ha rotto gli indugi: dando corso a una norma di delega contenuta in quella “miniera” legislativa costituita dal “collegato lavoro” riguardante il grande tema di un nuovo apprendistato, quello indicato a suo tempo da Marco Biagi.