A Torino, davanti al giudice del  lavoro, Vincenzo Ciocchetti,  è in corso una vertenza destinata a decidere  non solo del futuro delle relazioni industriali, ma anche della permanenza dell’Italia nel club delle nazioni a forte vocazione industriale e manifatturiera, difesa e mantenuta nonostante l’infuriare della crisi.



L’oggetto della controversia è noto: si tratta della legittimità degli accordi Fiat (si parte da Pomigliano) per quanto riguarda la newco, il contratto aziendale e la questione della rappresentanza regolata dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori. Per la Fiom vi sono profili di condotta antisindacale, in quanto tutte quelle misure sarebbero state adottate dal Lingotto al solo scopo di discriminarla. 



Nella prima udienza di sabato scorso si è preso atto del fallimento del tentativo di conciliazione. La Fiat si è dichiarata indisponibile ad accogliere le richieste avanzate dalla federazione dei metalmeccanici (della Cgil?), la quale, a sua volta non ha aderito alle proposte di mediazione fatte dal giudice. In conclusione di un confronto durato cinque ore, ambedue le parti hanno espresso il loro apprezzamento per la conduzione della vertenza che è stata nuovamente calendarizzata per il 16 luglio, quando il giudice si è riservato di valutare la sussistenza di effetti discriminatori negli atti di per sé non illegittimi operati dalla Fiat. 



A nostro avviso, il punto cruciale della controversia lo ha colto, in un’intervista a La Stampa, il prof. Raffaele De Luca Tamajo, coordinatore del pool di avvocati difensori del Lingotto. «L’accordo di Pomigliano è l’unica strada per restare competitivi – ha affermato -, ma a differenza di quel che succede in altre aziende che devono confrontarsi con la globalizzazione, quell’accordo prevede alcune poste attive: un’occupazione tendenzialmente garantita per tutti; livelli di retribuzione non ridotti bensì aumentati; nessuna esternalizzazione, anzi il recupero di alcune lavorazioni come quelle della plastica; nessun smottamento azionario con l’ingresso di capitali stranieri. Tutto questo – conclude De Luca Tamajo con una punta di garbata polemica – non si dice mai».

Proprio qui, invece, sta il cuore del problema: ciò che la Fiat garantisce è quasi un atto dovuto, un presupposto normale – come sembrano credere tutti quelli che blaterano di  diritti indisponibili – oppure è anch’esso materia di scambio e di negoziato?

A Pomigliano e negli altri stabilimenti la Fiat ha chiesto la saturazione degli impianti e un incremento delle vetture prodotte, obiettivi per il raggiungimento dei quali ha chiesto e ottenuto (da fior di sindacati tutt’altro che “gialli”) quelle deroghe che vengono rilasciate, tramite negoziato, in tutti i Paesi europei e sviluppati dove esistono e sono praticate normali relazioni industriali (che dire della Spagna del socialista Zapatero che promuove per decreto legge la prevalenza applicativa della contrattazione aziendale ampiamente derogatoria?). 

Viene naturale, allora, porsi una domanda. Mettiamo il caso che il giudice di Torino, tra un mese, dia ragione a Maurizio Landini (prima o poi bisognerà pure interrogarsi su cosa è diventata la Fiom) e condanni la Fiat smantellando con una sentenza il complesso impianto di politica societaria, industriale e contrattuale che Sergio Marchionne ha progettato, nell’interesse della sua impresa e del programma Fabbrica Italia.

Per noi non ci sarebbe da meravigliarsi se l’ad del Lingotto facesse più o meno questo ragionamento: «Io ho dichiarato delle disponibilità importanti per il bene dei lavoratori e del Paese, investendo per la prima volta risorse del gruppo. Ho garantito il lavoro a migliaia di persone, in stabilimenti carichi di problemi, che era più facile chiudere che rilanciare. Per poter realizzare questi programmi ho posto delle condizioni per quanto riguarda l’organizzazione del lavoro e della manodopera. Le ho negoziate con dei sindacati rappresentativi. Gli accordi sottoscritti sono stati sottoposti al giudizio dei lavoratori che li hanno approvati a maggioranza. Se adesso mi dite che quelle condizioni di lavoro (meglio pagate e identiche a quelle operanti in tutto il mondo) sono ritenute illegittime e discriminatorie in Italia, io, Sergio Marchionne, mi sento autorizzato ad andare a produrre automobili laddove quelle che, a mio avviso, costituiscono ragioni essenziali per fare impresa, sono accettate e ritenute giuste».  

Che altro potrebbe aggiungere Marchionne, rivolgendosi  alla società italiana e a quelle forze politiche che sono più propense a denunciare i problemi piuttosto che proporre soluzioni? Solamente:  «Siete voi che mi avete obbligato a  dire ’’non possumus’’». 

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