Si torna a parlare di pensioni. Circolano, infatti, con insistenza alcune ipotesi tra le quali l’allineamento graduale a 65 anni del requisito anagrafico di vecchiaia per le lavoratrici del settore privato.

Questa misura, però, incontra, al solito, l’ostilità dei sindacati e quindi pare che il Governo stia studiando una soluzione più blanda: quella di anticipare – dal 2015 al 2013 – l’aggancio automatico dell’età pensionabile alle dinamiche demografiche, realizzando così una strategia dei piccoli passi in quanto l’incremento si limiterebbe a tre-quattro mesi per ogni “scalino”.



Si è parlato pure di portare dal 26% al 33% (un atto sciagurato nella sostanza, ma spendibile demagogicamente come presupposto per un trattamento pensionistico più elevato a favore degli attuali precari) l’aliquota contributiva degli iscritti in via esclusiva alla Gestione separata presso l’Inps (in una parola, i collaboratori) e di “limare”, per un certo periodo di tempo, le pensioni più elevate.



Ovviamente, per adesso, si tratta solo di ipotesi: ma, come d’incanto, si moltiplicano già le dichiarazioni contrarie ad affrontare le questioni ancora aperte in un settore che è tanta parte della spesa pubblica e che è messo alla prova da trasformazioni demografiche, occupazionali ed economiche mai emerse con tanta violenza e rapidità in epoche storiche precedenti. Non più tardi di qualche giorno fa, l’Istat ha certificato che (dati 2009) l’incidenza della spesa pensionistica sul Pil è appena al di sotto del 17%. Ciò significa che la crisi – determinando un crollo del prodotto, in misura del 5%, al denominatore, a fronte di una crescita importante della spesa al numeratore – ha anticipato di quasi un quarto di secolo quel “picco” previsto intorno al 2035, quando i baby boomers erano attesi all’appuntamento con la quiescenza.



Certo, il Governo ha adottato delle misure di carattere strutturale, lo scorso anno, che si sono limitate, però, a correggere di qualche decimale di punto una curva della spesa che resta stabilmente al di sopra della media europea per almeno 2 punti di Pil. In tale contesto, le solite “anime belle” pontificano che le pensioni non possono essere usate per “fare cassa”, come se non fosse proprio questo il problema di un Paese, come l’Italia, che avrà pur affrontato con efficacia la crisi finanziaria evitando di seguire la Grecia lungo il viale dei passi perduti, ma che presenta tanti handicap strutturali da potersi trovare, da un momento all’altro, in grave difficoltà, se soltanto fallisse un rateo di sottoscrizione dei titoli di Stato o se, per poterlo fare, si dovessero promettere tassi d’interesse insostenibili.

È mai possibile che un settore di spesa pubblica tanto importante, come il sistema pensionistico, possa “marcare visita” quando, tra poche ore, ci sarà l’appello a contribuire a una manovra dell’ordine di 40-45 miliardi nel giro di 24 mesi? Quanto alle misure da adottare, in tutto il mondo sviluppato l’aumento dell’età pensionabile è la risposta logica e conduce, da noi, al differenziale tuttora esistente per la vecchiaia delle lavoratrici dei settori privati.

Volendo agire con equità sarebbe il caso di ripristinare (come prevedeva la riforma Dini del 1995) una forma di pensionamento unificato per tipologia e genere, ma flessibile all’interno di un range compreso tra 63 e 68 anni, in grado di elevare l’età effettiva di pensionamento, ma di salvaguardare nel contempo le propensioni delle persone.