Il Lingotto incassa, nel giro di pochi giorni, due risultati importanti che lo risarciscono – almeno in parte – delle campagne diffamatorie cui è stato sottoposto da oltre un anno. Il giudice del lavoro, nel caso del licenziamento dei tre operai che nello stabilimento di Melfi avevano bloccato la catena della produzione nel corso di uno sciopero fallito per la mancata partecipazione della grande maggioranza dei lavoratori, ha rovesciato il primo giudizio di un anno fa e ha riconosciuto la legittimità delle sanzioni comminate dall’azienda.
Eppure, la vicenda a suo tempo aveva scatenato la solita campagna sindacal-mediatica contro la Fiat, soprattutto quando l’azienda – di cui era stato riconosciuto il comportamento antisindacale – aveva precluso il rientro nei reparti di produzione dei lavoratori reintegrati (pur corrispondendo loro la retribuzione) consentendone l’accesso soltanto nei locali a disposizione del sindacato.
I tre lavoratori si rivolsero persino al Presidente della Repubblica ottenendone una risposta invero sollecita. Ma il risultato più importante è quello della sentenza di sabato notte, con il quale il giudice del lavoro di Torino ha riconosciuto la legittimità dell’accordo di Pomigliano d’Arco (e implicitamente anche delle altre intese intervenute nel gruppo) nei suoi contenuti di fondo: dalla newco al contratto aziendale con i suoi contenuti economici e normativi.
Si tratta di una sentenza equilibrata, che riconosce le ragioni del Lingotto e nello stesso tempo individua il punto debole dell’accordo: l’applicazione dell’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori per regolare la questione della rappresentanza sindacale. La norma, infatti, dopo le modifiche derivanti dal referendum del 1995, attribuisce rappresentatività alle organizzazioni firmatarie degli accordi applicati a livello d’azienda.
Questa disposizione, recepita nelle intese degli stabilimenti della Fiat, ha espunto la Fiom dal novero degli interlocutori nei singoli stabilimenti dove si era autoesclusa dagli accordi. Così in azienda erano tornate protagoniste le Rsa delle singole organizzazioni al posto delle Rsu rappresentative di tutti i lavoratori. È indubbio che – pur trattandosi di una norma vigente e imposta addirittura dall’elettorato – l’uso del citato articolo 19 era servito a Sergio Marchionne come ritorsione nella guerra aperta con la Fiom di Maurizio Landini. Per questi motivi – crediamo – il giudice ha ritenuto che si potesse prefigurare un comportamento antisindacale.
In ogni caso, la questione della rappresentanza a livello aziendale è stato risolta nell’ambito dell’accordo dello scorso 28 giugno, sottoscritto anche dalla Cgil, che ha definito i rispettivi ruoli, nei meccanismi del negoziato a livello decentrato e nell’esigibilità degli accordi, tanto alle Rsu quanto alle Rsa. Landini, a buon diritto, si è compiaciuto di questa parte della sentenza. Ma la sentenza di Torino segna una netta sconfitta per il gruppo dirigente della federazione metalmeccanici della Cgil e per la “via giudiziaria” perseguita con fanatica ostinazione.
Da oggi le regole di un nuovo modello di relazioni industriali, di un’organizzazione del lavoro finalizzata a una maggiore produttività sono stati riconosciuti legittimi non solo nei fatti, mediante un negoziato sindacale e un accordo approvato dalla maggioranza dei lavoratori, ma anche in punta di diritto, mediante una sentenza pronunciata “in nome del popolo italiano”.
L’ordinamento giuridico ha compiuto così un passo importante in direzione di una nuova cultura del lavoro e del diritto, in grado mettersi in sintonia con le grandi trasformazioni economiche del nostro tempo.