Ben pochi osservatori, prima del fatidico 28 giugno scorso, avrebbero scommesso sulla sottoscrizione unitaria (inclusa la Cgil) di un accordo interconfederale sulle regole della rappresentanza sindacale e della contrattazione collettiva. Troppe polemiche, troppi dispareri, nel corso di tanti anni, avevano avvelenato i pozzi del dialogo, al punto da prefigurare ormai un modello bipolare per il sindacalismo italiano, caratterizzato da un conflitto insanabile tra gli ammessi alla “piattaforma riformista” e i carnefici e le vittime del loro stesso radicalismo.
La Cgil sembrava completamente egemonizzata dalla Fiom, divenuta punto di riferimento di un blocco culturale, politico e sociale espressione della“Italia peggiore”. La Confindustria doveva esorcizzare lo spettro dell’uscita della Fiate sventare, quindi, quella crisi irreversibile che ne sarebbe derivata per la sua funzione di rappresentanza del mondo imprenditoriale.
Così, le “due Signore” (le Thelma e Louise di casa nostra) hanno deciso di venire in soccorso l’una dell’altra. Il protocollo riconosce le ragioni ineludibili di ciascuna delle parti in causa. Susanna Camusso incassa la conferma del ruolo centrale del contratto nazionale, pur rassegnandosi a consentire che la contrattazione aziendale approdi – come chiedeva la Confindustria e a fronte di precise condizioni – a «intese modificative delle regolamentazioni contenute nei contratti nazionali di lavoro».
È solo unmodo più diplomatico per ammettere quelle clausole di deroga che,a suo tempo,furono assunte come motivo del rifiuto della Cgil di Guglielmo Epifani a sottoscrivere l’accordo quadro del 22 gennaio 2009.Vengono poi valorizzate le Rsu, che diventano il soggetto decisionale (a maggioranza) sulla contrattazione aziendale e per la cosiddetta esigibilità degli accordi decentrati (anche se è assai macchinoso il sistema individuato per la certificazione degli iscritti ai sindacati ai fini di stabilirne il grado di rappresentatività). Si riconosce l’ammissibilità delle clausole di tregua, ancorchè impegnative per le organizzazioni firmatarie e non per i lavoratori.
A conti fatti, però, ha ragione Giulio Tremonti: l’accordo, pur con tutti i suoi limiti, costituisce una svolta molto importante anche per il Paese, al pari di quello del 1993. Anche adesso, come allora, l’Italia è impegnata ad affermare una prospettiva che ne condizionerà il futuro. Così, dai sindacati è venuto, anche in questa logica, un contributo positivo. Purtroppo le decisionidelle parti sociali hanno sempretempi lunghi e rischiano di arrivare agli appuntamenti con ritardi tali da vanificare ogni buona intenzione.
Per rendersene conto basta riflettere sul caso Fiat. L’accordo del 28 giugno non ha risolto il problema degli accordi separati sottoscritti dal gruppo, tanto che Sergio Marchionne – lo scambio epistolare con la presidente di Confindustria è secco e indispettito – non ha rinunciato a uscire dall’associazione di Viale dell’Astronomia. Poi, resta il problema della Fiom. La segreteria confederale è assolutamente in grado di avere ragione della setta di profeti che si annida a Corso Trieste, non solo nel Direttivo di oggi, ma anche se si dovessero interpellare i lavoratori.
Vi sono però due “armi letali” che la Fiom ha innestato e che non intende disarmare. In primo luogo,il gruppo dirigente della Cgil sta subendo la pressione di un’opinione pubblica di sinistra (la parte peggiore del Paese) che ha elevato Maurizio Landini a proprio profeta. Poi, resta aperta la questione del contenzioso presso il giudice del lavoro di Torino. Da quel giudizio dipende il presupposto-architrave del programma Fabbrica Italia: la legittimità della newco.
Insomma, la guerra aperta tra Fiat e Fiom è andata troppo avanti per accettare un armistizio.