«È possibile – diceva Abraham Lincoln – ingannare per sempre una sola persona o tutti per una sola volta. Nessuno però riuscirà giammai a ingannare tutti per sempre». Umberto Bossi farebbe bene ad annotarsi questa affermazione, perché non riuscirà sempre a cavarsela agitando slogan approssimativi incapaci di reggere a un minimo confronto con elementari dati di fatto.



Nel vertice di ieri, la Lega Nord ha ribadito che le pensioni devono restare fuori dalla supermanovra, infischiandosene delle dichiarazioni di Angelino Alfano che invece aveva assunto una posizione diversa dichiarandosi comunque aperto al confronto. Due aspetti tuttavia rimangono incontrovertibili anche per chi è pronto a negare la verità pur di fare propaganda politica spicciola. Per tanti motivi Bossi non può dire che la Lega si rifiuta di tagliare le pensioni alla povera gente: in primo luogo perché lo ha già fatto quando ha votato insieme alla maggioranza la manovra di luglio. In quell’occasione, manomettendo il sistema di rivalutazione delle pensioni, si sono determinati dei tagli, limitati nel tempo ma destinati ad avere effetti permanenti, a carico di trattamenti pensionistici che non potevano sicuramente essere definiti “d’oro”.



Se si interviene sull’età pensionabile non si taglia nulla, ma si lavora al consolidamento del sistema e a una maggiore adeguatezza dei trattamenti. In secondo luogo, per capire che cosa si sarebbe dovuto fare ancora in materia di anzianità, sarebbe bastato ricopiare con la carta carbone quanto stabiliva in proposito la riforma Maroni del 2004, in cui non era previsto soltanto il famigerato “scalone” da 57 a 60 anni in un solo colpo all’inizio del 2008, ma anche un percorso graduale destinato ad elevare il requisito anagrafico delle pensioni di anzianità a 62 anni per i dipendenti e a 63 per gli autonomi.



Infine, sostenere che i pensionati di anzianità – i fruitori del vero privilegio di massa del sistema – sono “povera gente” è assolutamente il contrario della verità. Ma tant’è: l’asse Lega, sindacati, Pd tiene, con appoggi anche all’interno del governo. Ne prendiamo atto. Chi scrive tuttavia rimane convinto della necessità di un intervento sulle pensioni che anticipi in modo sostanziale l’andata a regime dei 65 anni per la vecchiaia delle lavoratrici dei settori privati e che promuova, in tempi ragionevoli, la “soluzione finale” per i trattamenti di anzianità, che continuano a rappresentare, per tante ragioni, l’aspetto più critico del sistema pensionistico italiano. Ma non intende fare promesse salvifiche e risolutive, perché neppure la previdenza potrebbe, da sola, sanare i punti di sofferenza della supermanovra di Ferragosto. In materia di pensioni, le riforme partono piano, con effetti economici limitati. Acquistano, però, forza nel tempo.

Per avere un contributo significativo, a partire dal 2012, esiste, dunque, un solo modo: allineare, magari in alcune tranche, l’aliquota contributiva dei co.co.co. (al 26%) con quella dei lavoratori dipendenti (pari al 33%). Ogni punto di incremento vale 180 milioni. Con i sette di differenza si otterrebbero, nel complesso, 1,3 miliardi e si assicurerebbe ai giovani, nel metodo contributivo, una pensione più dignitosa.

In conseguenza dell’accelerazione dell’innalzamento dell’età di vecchiaia delle lavoratrici private o dell’anticipo di quota 97 (per procedere poi verso quota 100), nel 2012 non vi sarebbero risparmi aggiuntivi a quelli già previsti per via dell’effetto-finestra che, di per sé, blocca, per un anno, gli esodi di quanti hanno maturato il diritto nel 2011. Ma, negli anni immediatamente successivi, i risparmi sarebbero costanti e crescenti. Il completamento della riforma pensionistica, con il suo profilo strutturale, potrebbe così “mettere in sicurezza” il pareggio di bilancio, raggiunto nel 2013 grazie a una serie di misure una tantum previste soltanto per il prossimo biennio, poi destinate a esaurire i loro effetti.

I mercati potrebbero apprezzare, così, la stabilizzazione, dopo il 2013, di un processo di risanamento ora molto incerto. Questo è il vero punto della questione. Ma, con l’aria da 8 settembre che tira, non saremo capaci di risolverlo. Ma i guai non stanno purtroppo tutti qui. È credibile una manovra da 45,5 miliardi in un biennio se i primi a sollevare dei dubbi sono all’interno dell’esecutivo e della maggioranza che l’ha proposta e che la deve approvare?

La babele di voci, boutade, ritorsioni, proposte senza capo né coda, avanzate da esponenti e settori della maggioranza sarebbe ridicola se non fosse tragica. Ma, al dunque, ci sarà poi qualcuno capace di tirare le file e governare le modifiche che tutti chiedono? A luglio, il relatore al Senato preparò gli emendamenti in stretto contatto con l’Economia e la Ragioneria dello Stato. Ma adesso Tremonti ha ancora la forza politica per “dare la linea” ? E se non sarà lui, chi potrà prenderne il posto con le medesime autorevolezza e competenza?