Il tema delle pensioni ricorda il fantasma di Banko, che tormentava i sonni di Macbeth. Per quanto gli appartenenti alla “confraternita del ‘non si tocca’” si prodighino ad allontanare da sé l’amaro calice, ricorrendo a ogni artifizio possibile – come la menzogna, il ricatto politico e le minacce – la questione finisce sempre per tornare all’ordine del giorno del Paese.



Anche Pinocchio (quanti ce ne sono da noi !) prendeva a martellate il Grillo Parlante senza riuscire mai a farlo tacere. Così delle pensioni si è parlato, spesso a sproposito, tutta l’estate in occasione del dibattito sulla manovra bis, senza riuscire, alla fine e dopo talune disavventure, a modificare più di tanto l’impostazione iniziale. Si è anticipato al 2014 l’avvio del lungo cammino a conclusione del quale le lavoratrici del settore privato andranno in pensione di vecchiaia a 65 anni come gli uomini, mentre lo “scandalo” del trattamento di anzianità non ha subito sostanziali modifiche.



Di recente il neo segretario del Pdl Angelino Alfano ha ben colto il punto critico del problema quando ha affermato che non possiamo chiedere ai giovani di andare in pensione a 80 anni per pagare l’assegno a quanti ci sono andati a 40. Al di là delle forzature, il problema esiste. Oggi il sistema impiega 9,5 miliardi all’anno per pagare la pensione a persone che hanno meno di 50 anni e – nonostante le riforme, anzi, grazie a esse – negli ultimi 20 anni si è consentito a 4 milioni di nostri concittadini di andare in quiescenza poco più che cinquantenni.

Si è molto discusso – in concomitanza con un intervento maldestro, ma non sbagliato, del  Governo, di escludere il riscatto della laurea e il servizio militare dal pensionamento con 40 anni di contribuzione a prescindere dall’età anagrafica – di questa citata forma di pensionamento che è diventata in pratica la via più breve per uscire dal mercato del lavoro, perché persone che anni or sono hanno cominciato a lavorare in età precoce o hanno potuto riscattare lunghi periodi di formazione, sono in grado di presentarsi all’appuntamento con la pensione prima di aver compiuto 60 anni (finestra compresa), percependo così il trattamento per 20-25 anni.



Il trend dell’invecchiamento è inarrestabile. L’ultima previsione della popolazione dell’Istat, con base 2007, prevede per il periodo 2010-2050: a) una crescita del tasso di fecondità da 1,37 ad 1,58; b) un aumento della speranza di vita di 5,9 anni per gli uomini e 5,4 per le donne, che porta i valori di fine periodo, rispettivamente, a 84,5 e a 89,5 anni; c) un flusso di immigrati poco inferiore a 200.000 unità annue.

Ma ciò che non si riesce a far capire in Italia è un’elementare constatazione: la grave crisi in cui siamo immersi ha già prodotto e continuerà a produrre pesanti effetti anche sul terreno della spesa pensionistica. In sostanza, le previsioni fatte a suo tempo non si sono realizzate. Il crollo del Pil poi ha determinato una anticipazione dei picchi di spesa attesi per il 2030-2035, a causa di una banalissima frazione aritmetica: se diminuisce il Pil al denominatore e la spesa continua a crescere al numeratore, il rapporto aumenterà anch’esso. Così, la crisi, nel triennio 2008-2010, ha visto crescere l’incidenza della spesa di 1,4 punti percentuali (dal 13,9% al 15,3%).

Nei prossimi anni (2001-2014), secondo la pubblicazione della Rgs, (Le tendenze di lungo periodo del sistema pensionistico e socio-sanitario), il rapporto tra spesa pensionistica e Pil si assesterà a un livello pari a circa il 15,4%, per poi flettere gradualmente fino al 15% nel 2026. Nei 15 anni successivi il rapporto spesa/Pil raggiungerà il livello massimo con il 15,5% nel periodo 2040-2043, quando la spesa in termini di Pil decrescerà rapidamente fino al 14,7% nel 2050.

Si dimostra così che non c’era solo la voglia di “fare cassa” nelle misure proposte e adottate nella prima e nella seconda manovra del 2011, in materia di pensioni. Purtroppo ci si è messa di mezzo la “politica della canottiera”.