“Ugualmente, al fine di conseguire risultati positivi in termini di creazione e/o di difesa dell’occupazione, si potrebbero prevedere, come già sperimentato in Germania, delle cosiddette “clausole di uscita”, che consentano entro certi limiti ed a precise condizioni definite nel ccnl di derogare a livello aziendale e/o territoriale alla disciplina negoziata a livello nazionale. Tali clausole comporterebbero comunque sempre la consensualità delle deroghe, verificata e validata dalle stesse organizzazioni firmatarie dei contratti collettivi derogati; ad esse, peraltro, spetterebbe il potere di autorizzare le suddette clausole, sia per le materie oggetto della deroga, sia per i limiti di contenuto e di operatività temporale della deroga stessa, sempre comunque di natura transitoria”.



Così stava scritto nella relazione conclusiva della Commissione presieduta da Gino Giugni, istituita dal Governo Prodi nel 1997 con il compito di sottoporre a verifica l’attuazione del Protocollo sulle relazioni industriali del 1993. Di questa Commissione erano componenti alcuni dei più importanti giuslavoristi italiani, inclusi Massimo D’Antona e Marco Biagi.



Sono passati molti anni dalla stesura di quel testo, pregevole per tante altre considerazioni. Basti pensare, ad esempio, a come veniva affrontato il tema della contrattazione decentrata, secondo un’impostazione che anche oggi incontra delle contraddizioni e delle resistenze: “La contrattazione di livello decentrato, aziendale o territoriale secondo le prassi presenti nei diversi settori, oltre alle competenze rinviate dai ccnl, stabilisce un legame tra le erogazioni economiche e le performances aziendali/locali, utilizzando indicatori di produttività, redditività, qualità e competitività. Rappresenta, dunque, un tentativo di accrescere la parte variabile della retribuzione, risultato che doveva essere ottenuto anche mediante una parziale incentivazione (decontribuzione) di tali elementi. Come detto, questo livello di contrattazione non ha trovato piena applicazione”.



Questa nuova impostazione è riuscita a farsi strada tra mille difficoltà, fino a trovare spazio, prima, nella contrattazione unitaria dei chimici, poi, nell’Accordo quadro del 22 gennaio 2009, non sottoscritto dalla Cgil. In seguito, la questione si è posta, in termini operativi, nel contesto della vicenda Fiat, quando, a fronte di un importante programma di investimenti produttivi, il Lingotto ha chiesto di adottare modelli produttivi e comportamenti collettivi adeguati rispetto alle esigenze di competitività del gruppo sugli scenari internazionali (i più recenti avvenimenti stanno a provare che anche negli Usa Sergio Marchionne incontra qualche difficoltà con le organizzazioni sindacali).

Il caso Fiat ha messo in evidenza, tuttavia, le grosse difficoltà che in Italia incontra il cambiamento. Perché i dissensi sindacali hanno finito per infilarsi lungo percorsi giudiziari con esito diverso, a seconda dei tribunali aditi. Poi è intervenuto l’accordo del 28 giugno di quest’anno che ha trovato un’importante soluzione unitaria anche nella possibilità di introdurre “clausole di diversità” appositamente negoziate. Ma agli accordi Fiat non è stata riconosciuta, per meri motivi politici, l’applicabilità di quella norma, essendo la loro sottoscrizione antecedente la sottoscrizione dell’accordo.

L’articolo 8 del decreto legge convertito la scorsa settimana ha risolto questo problema con una esplicita disposizione. È un regalo alla Fiat o è un intervento che si propone di garantire un investimento cruciale per il sistema produttivo e l’occupazione? E che dire della norma che consente di attribuire, alla buon ora, efficacia erga omnes agli accordi a livello decentrato se approvati secondo procedure che accertino e assicurino un’espressione maggioritaria dei lavoratori?

L’articolo 8 indica poi una serie di materie derogabili se finalizzate a obiettivi di crescita e di sviluppo (la maggiore occupazione, la qualità dei contratti di lavoro, l’adozione di forme di partecipazione dei lavoratori, l’emersione del lavoro irregolare, gli incrementi di competitività e di salario, la gestione delle crisi aziendali e occupazionali, gli investimenti e l’avvio di nuove attività).

Nessun arbitrio, dunque, ma solo l’attribuzione di un ruolo costitutivo alla contrattazione in deroga a opera (qui il Senato ha fornito, con i suoi emendamenti, ogni possibile garanzia) delle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale. È disonesto negare la solidità di questa impostazione per quanto riguarda l’effettiva rappresentatività delle parti abilitate a condurre in porto un negoziato tanto complesso e delicato.

Infine, la questione del licenziamento. Ci si può girare attorno all’infinito, ma è sicuramente impedito a crescere un sistema sociale in cui un datore di lavoro pensa più volte, e con preoccupazione, se sia sostenibile o meno per la sua attività la scelta di assumere un lavoratore a tempo indeterminato, quando viene in ballo la reintegra.