Dalli al precariato! È la solita denuncia di una condizione giovanile che continua a rimanere esclusa dai circuiti del lavoro stabile. Eppure, non è quella della cosiddetta precarietà giovanile il primato negativo del mercato del lavoro italiano. Recenti studi in sede Ocse hanno messo in evidenza che in molti paesi europei l’accesso al lavoro dei giovani avviene mediante forme di lavoro temporaneo e che l’Italia è in buona (anzi cattiva) compagnia.
Da noi, il 46,7% dei giovani ha iniziato la vita lavorativa con un rapporto temporaneo; in Germania il 57,2%, in Francia il 55,2%, in Svezia il 57%, in Svizzera il 52,7%. Diversi sono i casi del Regno Unito (13%) e degli Usa (10%) e, in Europa, della Danimarca (21%). Le ragioni di tali differenze stanno tutte nel grado di flessibilità complessiva dei rapporti di lavoro: quanto è più elevato, tanto è maggiore il numero dei giovani precari.
La questione italiana ha un altro segno: purtroppo abbiamo il triste primato dei giovani inattivi (i cosiddetti neet), che non studiano più, che non lavorano ancora e che non cercano neppure un’occupazione. Ma sarebbe sbagliato fare di ogni erba un fascio, mettendo insieme – come sostengono tanti – chi svolge un lavoro saltuario e chi non è occupato. Talvolta capita persino che si faccia un’ammucchiata che si spinge fino a ricomprendere nel limbo, da un lato il lavoro nero, mentre dall’altro arriva persino a includere l’apprendistato, che è pur sempre un rapporto di lavoro a tempo indeterminato.
Ma la più vistosa esibizione di malafede è quella che porta tante “anime belle” a sostenere che è il numero eccessivo di rapporti di lavoro a produrre precarietà. Questa tesi non è condivisibile. Ed è dimostrato dai fatti della vita reale al cui servizio devono stare le leggi (da noi invece vi è spesso la pretesa che avvenga il contrario, che sia cioè la vita reale ad adattarsi nella camicia di forza di leggi dettate dalla ideologia).
Se il proprietario di un ristorante deve affrontare eccezionalmente un banchetto nuziale o un raduno di ex alpini e ha bisogno di un paio di camerieri in più solo per quella giornata, il rapporto che fa al caso suo è il lavoro a chiamata. Se un signore deve raccogliere, nel weekend, l’uva della sua vigna, e vuole avvalersi di un paio di studenti disponibili al lavoro accessorio, il voucher è lo strumento adatto per retribuirli. Se un’azienda riceve una commessa straordinaria che non è in grado di espletare con il normale organico, può ricorrere al lavoro in affitto o ai contratti a termine. Se queste forme non fossero previste le difficoltà operative sarebbero sicuramente maggiori; come pure le occasioni di lavoro.
Ognuna di queste tipologie contrattuali (compreso il lavoro a progetto) è regolata da norme precise (certo, sempre migliorabili) che ne stabiliscono la regolarità e ne sanzionano gli abusi. Se capita, allora, che un libero professionista assuma una segretaria a tempo pieno e la retribuisca con i voucher oppure un’azienda faccia svolgere a un giovane assunto come collaboratore a progetto mansioni proprie del lavoro subordinato, la colpa non è delle norme, ma del loro mancato rispetto, peraltro sempre sanzionabile in giudizio con ampie possibilità di vittoria, se non è sufficiente la tutela di un sindacato.
A queste osservazioni conosciamo già la replica: i giovani sono costretti a subire il ricatto. Ma su questa strada non sono date certezze di alcun tipo: se anche fosse previsto soltanto il contratto a tempo indeterminato i giovani potrebbero dover subire un sopruso ancora più vile: quello del lavoro nero o della disoccupazione. Tutto ciò premesso, esiste davvero e sempre la volontà di contrastare gli abusi, nei fatti e non solo a parole?
Un evento recente ci lascia qualche dubbio in proposito. L’articolo 11 del decreto-supermanovra ora divenuta legge è stato pensato apposta con il proposito di prendere sul serio i sindacati che denunciavano un abuso dei tirocini. In sostanza – questa era la critica – molte aziende si avvalgono di uno strumento di stretto contenuto formativo (anzi interno al completamento di tale processo) per fare lavorare dei giovani, pagandoli con cifre irrisorie.
Il ministro Maurizio Sacconi, allora, ha deciso di dare un giro di vite (appunto con l’articolo 11), in modo da contrastare gli abusi denunciati. La norma non solo ha stabilito quali siano i soggetti abilitati a fare uso degli stages, ma ha altresì disposto che tali esperienze formative possano avere luogo entro un anno dalla conclusione degli studi e comunque non devono superare la durata di sei mesi. Una misura giusta perché i tirocini nulla hanno da spartire con la funzione dell’apprendistato.
Apriti cielo! Sono cominciate a piovere le proteste. Delle Regioni prima di tutto, sempre pronte a difendere poteri loro conferiti che in pratica sono incapaci di esercitare. Ben presto anche le parti sociali hanno fatto sapere al governo che una disposizione tanto rigida e rigorosa creava loro dei grossi problemi rispetto ad accordi assunti a livello di imprese. Così il ministero del Lavoro, poche ore dopo l’entrata in vigore della legge, ha emanato – che altro poteva fare ? – una circolare in cui si afferma che l’articolo 11 si applica ai nuovi tirocini, mentre quelli vigenti continuano ad andare avanti secondo gli accordi presi. L’ordine regna a Varsavia.