Alle politiche sociali in favore della famiglia (e della procreazione) tutte le forze politiche dedicano, a parole, una grande attenzione, magari dividendosi subito dopo, se si tratta di individuare quali siano i nuclei meritevoli di tutela: la famiglia naturale, unita da un vincolo matrimoniale? La coppia di fatto tra un uomo e una donna? O anche le cosiddette unioni civili tra persone del medesimo sesso e quant’altro è in grado di produrre la fervida fantasia di quanti sono sempre pronti a rivendicare il riconoscimento alla stregua di diritti delle loro propensioni e stili di vita (come quel personaggio dantesco che «libito fé licito in sua legge»)?



Eppure il Bel Paese destina alle famiglie e alla maternità risorse pubbliche pari a poco più dell’1% del Pil: meno di un decimo di quanto spende per le pensioni. Negli anni ‘60, sia pure in un contesto demografico profondamente diverso dall’attuale, la spesa per assegni familiari (allora misura di carattere universale, fino alla riforma del 1988 che introdusse l’assegno al nucleo familiare – Anf – ragguagliato al reddito e al numero dei componenti) era pressoché uguale a quella per le pensioni. Se qualcuno domandasse perché oggi non si attuano quelle robuste politiche, fiscali e sociali, a sostegno della famiglia che in tanti sollecitano, la risposta sarebbe sempre la stessa, a prescindere dal Governo o dal ministro interpellati: non sono disponibili adeguate risorse a causa della crisi della finanza pubblica.



L’affermazione è vera solo in parte, perché, all’interno della Gestione prestazioni temporanee dell’Inps (che eroga le prestazioni previdenziali “minori” in quanto non pensionistiche), la voce “assegno al nucleo familiare” incassa dai datori di lavoro circa un miliardo in più di quanto spende (mentre l’indennità di maternità è finita in disavanzo). È questo, tuttavia, solo il punto terminale di una politica che ha consapevolmente sacrificato il sostegno alla famiglia per finanziare il sistema pensionistico. Lo ha ricordato (ma la cosa era nota, anche se ignorata a bella posta) recentemente il saggio della Conferenza episcopale italiana “Il cambiamento demografico” pubblicato da Laterza lo scorso anno.



La riforma del sistema pensionistico, attuata dalla Legge Dini-Treu del 1995, stabilì una riallocazione dei contributi a favore del Fondo pensioni lavoratori dipendenti (Fpld) la cui aliquota contributiva, dal 1° gennaio 1996, passò dal 27,5% al 32,7%. Per non aumentare il costo del lavoro, la legge operò, a oneri invariati, una ristrutturazione della contribuzione sociale: l’aliquota per l’Anf passò dal 6,2% al 2,48%, quella per la maternità dall’1,23% allo 0,66%, mentre quella ex Gescal dallo 0,35% a zero. In euro, a prezzi 1996, la diminuzione delle risorse disponibili fu di 4,6 miliardi per l’Anf, di 0,6 miliardi per la maternità, di 1,4 miliardi per asili ed edilizia sociale, per un totale di 6,6 miliardi. A prezzi 2008, le risorse disponibili, trasferite, corrispondono a 8,5 miliardi l’anno.

Più chiaramente – scrive la Cei – dal 1996 al 2010 la riallocazione di risorse destinate alla famiglia, in senso lato, ha finanziato il sistema pensionistico per un ammontare che, a prezzi 2008, corrisponde a un volume finanziario pari – fino appunto al 2010 – a circa 120 miliardi di euro. Che altro dire di un modello sociale tanto distorto, dove i nonni e i padri rubano ai figli e ai nipoti? Soltanto questo: pensione, quanti misfatti in tuo nome!

 

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