Ieri l’Istat ha colpito ancora. I dati di settembre sulla disoccupazione sono stazionari rispetto ad agosto, ma dall’inizio dell’anno vi è un consistente calo superiore al 2%. La disoccupazione giovanile nella fascia di età tra i 15 e i 24 anni supera il 34%: il dato si riferisce alla platea degli occupati e di chi cerca lavoro all’interno di quelle coorti e non, come lasciano credere con una punta di malizia, a tutta la popolazione di quella fascia d’età, perché se così fosse la percentuale dei disoccupati scenderebbe al 10%.



A fianco di queste statistiche che evocano “l’anno orribile” del 2004, come se fosse un corollario, l’Isfol ha spiegato che i precari guadagnano in media meno di mille euro al mese. Restiamo in attesa di conoscere quale sarebbe l’equo compenso per questi giovani, visto che un metalmeccanico quarantenne con famiglia a carico ne guadagna 1200 o poco più. Verrebbe voglia di non essere politicamente corretti e domandare quanti di quei magri guadagni dei nostri giovani precari sono serviti per acquistate il nuovo modello di iPhone, dopo aver fatto la fila per giorni e notti davanti agli Apple Store. Ma non divaghiamo. Anzi, per una volta almeno leghiamo l’asino dove vuole il padrone ovvero il “pensiero unico” che vuole i giovani tutti precari.



Eppure, se è vero che il 34% è disoccupato ci sarà pure un 66% che lavora. Ma questi non se li fila nessuno, non li intervistano a Ballarò e li ignorano a Piazzapulita, perché con il loro comportamento mettono in discussione le caricature della società che secondo loro “fa notizia”. E la verità rivelata non ammette opinioni contrarie o repliche. Persino l’Istat si premura periodicamente di farci sapere che 7-8 giovani su dieci sono assunti con contratti temporanei, ma si guarda bene dal segnalare che ciò avviene, purtroppo, per un periodo più o meno lungo, ma che, nella generalità dei casi, si conclude con un’assunzione a tempo indeterminato.



Un recente studio dell’Ocse ha calcolato, su tutti i Paesi aderenti, quanto tempo trascorre in media prima che un giovane, al termine del processo formativo, trovi dapprima un impiego, poi venga stabilizzato. Le performance dell’Italia si collocano verso il fondo della lista (25,5 mesi per ottenere il primo impiego; 44,8 mesi per conseguire un’occupazione a tempo indeterminato) insieme a Finlandia, Grecia, Spagna e Portogallo; anche in realtà più solide delle nostre, però, i giovani sono costretti a trascorrere un significativo arco di tempo prima di entrare stabilmente nel mercato del lavoro.

In Germania, il primo impiego si trova dopo 18 mesi, mentre si è assunti a tempo indeterminato dopo 33,8 mesi. In Francia, rispettivamente dopo 24,3 e 40,7 mesi. Tutt’altra storia per un giovane americano che comincia a lavorare mediamente dopo 6,3 mesi (grazie alla regola generale della flessibilità?) secondo il medesimo regime contrattuale che lo accompagna durante tutta la vita lavorativa. In Italia il problema più grave della condizione giovanile in Italia non è la cosiddetta precarietà, ma la disoccupazione: due fenomeni distinti e diversi.

Soffriamo di un minor grado di precarietà di altri Paesi, mentre il tasso di disoccupazione giovanile è sicuramente tra i più elevati. Da noi, gli occupati temporanei sono il 12,8% del totale contro il 15% della Francia, il 14,7% della Germania, il 15,8% della Svezia e il 18,5% dell’Olanda. Nel Regno Unito (altro miracolo della flessibilità?) solo il 6,1%. E come si ripartiscono i lavoratori temporanei nei diversi comparti? Il 54,3% in agricoltura, il 13,6% nelle costruzioni, il 27,9% nel turismo: si tratta di settori dove la stagionalità è insita nel processo produttivo. Nell’industria, infatti, sono solo l’8,1%. Nel cosiddetto lavoro interinale è impiegato l’1,12% del totale degli occupati. Quanto ai parasubordinati – il vero comparto opaco da bonificare – siamo a livello del 2,4% (1,5% collaboratori e 0,9% lavoratori in proprio; solo lo 0,6% è occupato nell’industria).

Trasferendo i dati riguardanti lo stock degli occupati a livello delle coorti di età, possiamo notare (sempre secondo l’Ocse) che il 46,7% dei giovani italiani oggi ha un lavoro temporaneo. Anche questo, però, non è un primato negativo, perché in Germania sono il 57,2%, in Francia il 55,2%, in Svezia il 57% (mentre in Danimarca il 21%, nel Regno Unito il 13%, negli Usa il 10%). Da noi, nonostante che i giovani concludano il ciclo formativo 3-4 anni più tardi dei loro colleghi europei, il 76,4% dei laureati ha un’occupazione (82,3% gli uomini e 71,7% le donne).

Certo, la situazione è difficile soprattutto per i giovani che spesso diventano disoccupati di lunga durata (quasi la metà lo sono). È soprattutto la disoccupazione intellettuale a preoccupare. Ma se la Pubblica amministrazione e la scuola assumeranno sempre meno, se le banche dovranno ristrutturarsi, bisognerà pure rassegnarsi a prendere il lavoro che c’è e dove c’è, anche se vanno fatti tutti gli sforzi per rendere appetibile quello che una volta era considerato lavoro manuale e che adesso è fortemente permeato in modo trasversale dalle nuove tecnologie.

Dal 2008 al 2011 si sono persi 940mila posti di lavoro di italiani e vi sono stati oltre 500mila nuove assunzioni di stranieri. Ci sarà pure una spiegazione per tutto ciò?