Qualcuno ha compreso per quali motivi non è ancora stato possibile realizzare l’intesa tra le Parti sociali in tema di produttività? Ormai sono diventato un lettore disattento dei giornali e ho praticamente smesso di guardare la tv, ma sarei pronto a scommettere che sull’argomento i media, di solito sempre accaniti e puntigliosi spettatori, abbiano sorvolato parecchio. Peraltro non è stato diffuso neppure il testo su cui le delegazioni avevano lavorato per settimane e che sembrava in procinto di essere sottoscritto.
Qualche bene informato racconta che, questa volta, a buttare in aria il tavolo non sia stata la Cgil, ma qualche organizzazione imprenditoriale insoddisfatta per come la Confindustria aveva condotto, da portavoce, il negoziato. Anche il Governo non ha certo brillato per protagonismo (ma questo Corrado Passera non sarà un po’ sopravalutato?). Eppure era stato il Premier stesso a fornire, quasi all’improvviso, l’input alle Parti sociali addirittura fissando una precisa scadenza, trascorsa inutilmente la quale, l’esecutivo avrebbe provveduto direttamente. Poi, si era tenuto lontano dal confronto, evitando con cura non solo di gestirlo, ma anche di influenzarne gli sbocchi.
Il Governo tuttavia aveva compiuto un atto importante, stanziando risorse – preziose e limitatissime in questa fase – per 1,6 miliardi (un ammontare notevolmente più elevato di quanto disposto in passato a tale titolo) per favorire con un regime fiscale agevolato quelle quote di retribuzione rivolte a incrementare la produttività e la qualità del lavoro. Ora il ministro Fornero ha dichiarato che queste risorse saranno impiegate diversamente se verrà confermato il mancato accordo tra le Parti sociali.
La questione di una maggiore produttività da raggiungere attraverso il negoziato e gli avvisi comuni (è importante l’accordo di rinnovo del contratto dei chimici sottoscritto in queste ultime settimane senza una sola ora di sciopero e con contenuti molto innovativi) era uno dei punti (b) della lettera della Bce del 5 agosto 2011, dove veniva individuato, come vettore di una maggiore produttività, lo sviluppo, in una logica addirittura prioritaria, della cosiddetta contrattazione di prossimità (ovvero a livello aziendale e territoriale) rispetto a quella di carattere nazionale.
Per tanti motivi che non riguardano soltanto l’organizzazione del lavoro e l’apporto dei lavoratori, l’Italia si trova in una posizione svantaggiata rispetto ai paesi con cui è in competizione. Se consideriamo le variazioni percentuali medie degli anni Duemila possiamo notare un incremento di produttività del 5,2% negli Usa, del 3% nel Regno Unito, dell’1,8% in Germania, del 2,5% in Francia e solo dello 0,4% in Italia (un dato inferiore persino all’1,5% della Spagna). Diversamente, nello stesso periodo la variazioni percentuali medie dei salari reali dell’industria hanno dato i seguenti riscontri: Usa +1,3%, Regno Unito +1,6%, Germania +0,5%, Francia +1,3%, Italia +0,9%. In sostanza, in Germania i salari reali sono cresciuti meno della produttività, da noi più del doppio.
Lo stesso discorso vale per il costo del lavoro che in Italia è aumentato un punto in più che in Germania (3,1% rispetto a 2,1%). Ma quello che è più significativo è il costo del lavoro per unità di prodotto (il Clup) nel settore manifatturiero (di cui è importante l’export in ragione della competitività), la cui variazione percentuale media annua negli anni Duemila è stata dello 0,2% in Germania, dello 0,6% in Francia e del 2,7% in Italia. Se poi consideriamo il Clup riferito all’intera economia otteniamo uno 0,4% della Germania contro un 2,6% del nostro Paese.
Al dunque un differenziale di 2,2 punti che diventano 2,5 nel settore manifatturiero. In sostanza, si stima che l’Italia abbia perso trenta punti di produttività rispetto alla Germania (che all’inizio del decennio era il “grande malato d’Europa” e che ha saputo farcela attraverso le riforme del welfare e del mercato del lavoro e un modello di relazioni industriali che non si è sottratto ai sacrifici necessari). Davanti a noi stanno sfide complesse: è in aumento (si veda l’ultimo Rapporto del Cnel sul mercato del lavoro) l’offerta di lavoro nel senso che più persone cercano un’occupazione, spinte dalle crescenti difficoltà economiche delle famiglie; è in atto una riduzione del numero dei pensionati e una permanenza più lunga degli anziani nel mercato del lavoro per effetto delle riforme delle pensioni; cresceranno ancora i lavoratori immigrati, anche se i trend risentono della situazione di crisi. Basti pensare alla variazione percentuali tra il 2008 e il 2011 che ha visto diminuire del 4,4% i lavoratori italiani (in valore assoluto -941mila) e crescere del 28,7% quelli stranieri (+502mila).
Da oggi al 2020 (la nuova data magica della Ue) l’offerta di lavoro crescerà, da noi, di 2,4 milioni di unità (in prevalenza donne, anziani, giovani e immigrati). Ci sarà un aumento adeguato della domanda di lavoro? Ci sarà la capacità di accrescere la qualità del lavoro per renderlo appetibile a una forza di lavoro intellettuale che non trova più sbocchi nella Pubblica amministrazione, negli istituti di credito e che ne troverà sempre meno nell’industria la quale dovrà affrontare processi importanti di ristrutturazione?
Ecco perché la sfida della produttività si tiene insieme con quella della competitività e della crescita. Da subito occorre favorire la contrattazione decentrata con le misure di decontribuzione e di tassazione agevolata delle voci retributive rivolte a incrementare la produttività, avvalendosi anche dell’articolo 8 della manovra estiva del 2011, voluto dal ministro Maurizio Sacconi, che consente di conferire efficacia erga omnes agli accordi di prossimità anche in deroga alle norme di legge e di contratto nazionale. È l’unica maniera per orientare e allocare le risorse laddove servono allo sviluppo, alla competitività e all’export, evitando invece di disperderle in erogazioni di carattere generale (come detassare la tredicesima mensilità o drogare il mercato del lavoro riconoscendo robusti incentivi per chi assume a tempo indeterminato).