Del tema dei licenziamenti questo quotidiano si è occupato a più riprese negli ultimi mesi. Qui si vuole provare a considerarlo nella particolare prospettiva della “certezza del diritto”. Questa è, come noto, un principio fondamentale dell’intero ordinamento: l’effettività della tutela dei diritti e, prima ancora, la realizzazione di una giustizia sostanziale esigono un ragionevole affidamento dei cittadini non solo sui tempi e sui costi delle cause, ma anche sull’applicazione delle regole iuris. E una simile finalità è implicitamente compresa nell’«adegua(mento) alle esigenze del mutato contesto di riferimento (del)la disciplina del licenziamento» che, quale contropartita alla stretta sui contratti di lavoro flessibili, la legge Fornero si è proposta di realizzare.
È ancora presto per vere e proprie verifiche, tuttavia i primi riscontri giurisprudenziali già offrono qualche indicazione. Innanzitutto, è opinione comune fra gli interpreti che la legge non tocchi le tipizzazioni legali delle ragioni giustificative del recesso, ossia la “giusta causa”, il “giustificato motivo soggettivo” e il “giustificato motivo oggettivo”. Se qualche dubbio al riguardo sembra in realtà legittimo, comunque l’affermazione può qui assumersi come dato di partenza. Proprio tali clausole, tuttavia, costituiscono uno dei maggiori fattori di incertezza, per il loro carattere “generale” o “aperto”, che esalta la discrezionalità valutativa dei giudici. E a essere controverse sono soprattutto le nozioni di “giusta causa” e di “giustificato motivo oggettivo”.
Quanto a questo la legge in esame, modificando l’art. 7, l. n. 604 del 1966, ha introdotto un tentativo obbligatorio di conciliazione – peraltro solo per i licenziamenti intimati nelle organizzazioni produttive cui si applica la tutela reale – che vorrebbe prevenire, con soluzioni alternative, il contenzioso giudiziario. La previsione non tocca, in realtà, la definizione del giustificato motivo oggettivo, ma se attuata potrebbe avere un positivo impatto in termini di maggiore celerità e semplificazione nella definizione delle relazioni giuridiche: in definitiva, perciò, di certezza del diritto.
La giusta causa, invece, integra l’ipotesi più grave di licenziamento (soprattutto) disciplinare, non è toccata dalla legge e resta nozione dai confini sfuggenti, almeno a considerare la giurisprudenza. La criticità sta nel fatto che, ai fini della sua sussistenza, non basta l’astratta oggettività del fatto materiale contestato al lavoratore, ma rilevano anche gli «aspetti concreti di esso, afferenti alla natura ed alla qualità del singolo rapporto, alla posizione delle parti, al grado di affidamento richiesto dalle specifiche mansioni svolte nell’organizzazione produttiva, nonché alla portata soggettiva del fatto stesso, ossia alle circostanze del suo verificarsi, ai motivi ed all’intensità dell’elemento volitivo» (Cass. 28.7.2011, n. 16616).
Questo metodo finisce per esaltare l’incidenza, forse inconsapevole, della soggettività dei singoli giudici sulla valutazione giudiziale. Può così accadere che si disconosca l’esistenza di una giusta causa quando il lavoratore, nel luogo e durante l’orario di lavoro, abbia schiaffeggiato un’altra dipendente, sua moglie, tentando poi di aggredirla nuovamente arrivando altresì a insultare un superiore gerarchico intervenuto per far cessare il diverbio. E ciò perché l’aggressione sarebbe «riconducibil(e) a vicende personali, comunque del tutto estranee al rapporto di lavoro», mentre la risposta al superiore «costituiva la reazione nei confronti di soggetti intervenuti nel corso del suo diverbio aggressivo nei confronti della moglie, essendo del tutto accidentale la circostanza che gli stessi fossero altresì suoi colleghi»; il tutto poi non avrebbe turbato lo svolgimento dell’attività lavorativa, nonostante «del fatto si fosse a lungo parlato nel luogo di lavoro», essendo ciò ricollegabile alla «normale curiosità rispetto ad eventi che coinvolgono la sfera personale dei colleghi».
Come vorrebbe risolvere il problema la legge Fornero? Il nuovo testo dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori distingue due ipotesi di mancanza di giusta causa o giustificato motivo soggettivo: l’una, specifica, è data dall’insussistenza del fatto contestato, oppure dalla riconducibilità dello stesso alle condotte punibili con sanzioni conservative (comma 4); l’altra, generale e/o residuale, da tutte le altre ipotesi in cui non ricorre una delle due situazioni appena menzionate (comma 5).
Nel primo caso il licenziamento è improduttivo di effetti, applicandosi la tutela reintegratoria, cui si accompagna il diritto del lavoratore a percepire un’indennità risarcitoria commisurata all’ultima retribuzione globale di fatto dal giorno del licenziamento sino a quello dell’effettiva reintegrazione, dedotto quanto il lavoratore ha percepito, nel periodo di estromissione, per lo svolgimento di altre attività lavorative, nonché quanto avrebbe potuto percepire dedicandosi con diligenza alla ricerca di una nuova occupazione. In ogni caso, peraltro, l’indennità non può essere superiore a dodici mensilità. Nel secondo, invece, il recesso, pur illegittimamente intimato, estingue il rapporto, mentre spetta al lavoratore un’indennità risarcitoria nella misura definita dal giudice tra un minimo di 12 e un massimo di 24 mensilità di stipendio.
Ora, è di tutta evidenza il divario tra le due tutele e dunque l’importanza di distinguere quando si applichi l’una e quando l’altra; in altri termini, occorre capire cosa intenda la legge quando parla di insussistenza del fatto e dove stia la differenza dalle altre ipotesi. Ritorna qui la distinzione cui si è fatto cenno in relazione alla giusta causa, ma che vale, altresì, per il giustificato motivo soggettivo.
Sembrerebbe, infatti, che il legislatore voglia riferirsi al fatto materiale più che a quello giuridico. Se così fosse, allora la reintegrazione nel posto di lavoro diverrebbe una tutela residuale, perché in genere a fondamento del licenziamento stanno circostanze oggettivamente verificatesi (come l’aggressione nell’esempio citato). Questa, impostazione, del resto, consente di dare un senso alle altre ipotesi, con cui si darebbe ingresso alla valutazione di quegli ulteriori elementi di cui parla la Cassazione nel passaggio sopra richiamato.
Si possono evidenziare almeno due conseguenze di questa impostazione. La prima sarebbe la riduzione dell’area di applicazione della tutela reintegratoria, in favore di quella indennitaria. La seconda, l’acquisizione di un maggior grado di certezza delle relazioni economiche e giuridiche. E ciò sotto il duplice profilo: della prevedibilità degli esiti e dei costi delle scelte datoriali. Nel primo caso perché il datore di lavoro è in grado di valutare preventivamente l’esistenza del “fatto”, nel secondo perché la misura dell’indennità, sia pure tra un minimo e un massimo, è predefinita dalla legge, indipendentemente dalla durata del processo. Vero è che il fatto materiale addotto a fondamento del licenziamento può consistere in una pluralità di accadimenti, non tutti sempre esistenti o provabili in giudizio, ma l’impostazione della legge non risulta inficiata da questa complicazione.
Non è in questa direzione, però, che vanno le prime avvisaglie della giurisprudenza di merito. In una recente ordinanza del Tribunale di Bologna si legge «che la qualificazione e la valutazione di tale fatto, come di qualunque fatto storico, richiede la contestualizzazione del fatto medesimo e la sua collocazione nel tempo, nello spazio, nella situazione psicologica dei soggetti operanti, nonché nella sequenza degli avvenimenti e nelle condotte degli altri soggetti che hanno avuto un ruolo nel fatto storico in esame e nelle condotte antefatte e nelle condotte post factum dei protagonisti». E dell’insussistenza del fatto di cui all’art. 18, co. 4, si afferma a chiare lettere che «la norma […], parlando di fatto, fa necessariamente riferimento al c.d. fatto giuridico, inteso come il fatto globalmente accertato, nell’unicum della sua componente oggettiva e nella sua componente inerente l’elemento soggettivo», mentre non «può ritenersi che l’espressione […] utilizzata dal legislatore facesse riferimento al solo fatto materiale».
In sostanza, nulla è cambiato rispetto alla disciplina precedente. E il non detto di questa impostazione è l’irreversibilità della tutela reintegratoria. Se questa interpretazione trovasse conferma, la nuova disciplina dei licenziamenti risulterebbe in gran parte svuotata della sua carica “adeguatrice” alle mutate esigenze del contesto di riferimento, con buona pace della certezza del diritto.