In materia di lavoro e di welfare l’agenda che accompagna la “salita in politica” di Mario Monti contiene alcuni aspetti interessanti. Ma prima ancora di far “cantare” la “carta programmatica” vale la pena inquadrare le proposte effettuate nel contesto, altrettanto significativo, in cui il premier dimissionario ha ritenuto di collocare il suo prossimo impegno politico. Nei giorni scorsi Monti ha visitato lo stabilimento della Fiat di Melfi, ha parlato con Sergio Marchionne ed è stato applaudito dalle maestranze, mentre fuori la Fiom non esitava, come al solito, a “farsi riconoscere”.

Non intendiamo, certo, strumentalizzare le parole che il presidente del Consiglio ha rivolto, in quell’occasione, ai lavoratori; ma è emerso evidente un apprezzamento per un modello di relazioni industriali che, invece, è da anni oggetto di vere e proprie campagne diffamatorie sul piano politico, sindacale, giudiziario e mediatico. Da quanto tempo un presidente del consiglio non si recava a visitare un’unità produttiva in grande trasformazione come quella di Melfi, che, insieme a Pomigliano, rappresenta una delle poche realtà innovative del Mezzogiorno?

Le valutazioni del Premier in quella sede (criticate dalla Fiom e dalla Cgil) hanno poi trovato riscontro nei giudizi eleganti e corretti, ma estremamente netti e duri, che, durante la conferenza stampa di fine anno, il professore ha rivolto alla Cgil, a Vendola e a Sel e a certi settori del Pd, chiamati direttamente in causa. Questi riferimenti hanno riguardato sia la linea di condotta che quelle forze hanno tenuto in occasione della riforma del lavoro – riconoscendo (è scritto del documento programmatico) che nel mercato del lavoro occorrerebbe maggiore flessibilità, anche per aumentare l’occupazione -, sia l’accordo sulla produttività, non sottoscritto dalla Cgil.

A quest’ultimo proposito Monti ha ricordato, nella conferenza stampa, che la crescita non è determinata soltanto da fattori macroeconomici, ma anche dall’organizzazione dei fattori produttivi delle imprese e dai meccanismi retributivi che incentivano una maggiore produttività e qualità del lavoro mediante adeguati regimi d’orario, innanzitutto. In sostanza, Monti ha tracciato il perimetro entro il quale collocare le forze del riformismo, che poi sono le stesse indicate da Maurizio Sacconi, il quale aveva pronunciato parole altrettanto critiche nei confronti della Cgil. Monti è andato più in là entrando nel dibattito in atto nel Pd, valorizzando l’elaborazione di Pietro Ichino (soprattutto nell’intervista rilasciata nel pomeriggio di domenica a Lucia Annunziata) e assumendone gran parte nell’agenda (si veda in particolare quanto è stato dedicato alla semplificazione del diritto del lavoro).

Per quanto riguarda le tematiche del welfare, è un po’ deludente il capitolo dedicato alla sanità dove si fa un riferimento troppo generico alla “razionalizzazione”, trascurando le praterie che si aprirebbero individuando, come nella previdenza, un ruolo complementare dei fondi sanitari integrativi, allo scopo di cooptare e mettere in sinergia, nel “sistema”, sia il settore pubblico che quello privato.

Quanto alle pensioni, Monti è stato chiaro nel ribadire il suo “no pasaran” nei confronti di quei settori del Pd che si propongono, col pretesto di introdurre dei correttivi, di ripristinare, nei fatti, il pensionamento di anzianità. Molto interessanti le considerazioni sugli andamenti demografici, sull’invecchiamento della popolazione e sulla rarefazione delle nascite (ormai dimezzate di numero rispetto a cinquant’anni fa), con dati ancora più preoccupanti sul declino del Paese se non ci fosse l’apporto degli stranieri. E al riequilibrio della demografia devono essere rivolte le iniziative di sostegno alla famiglia.

Anche per la riforma del lavoro non sono ammesse marce indietro, ma anzi devono essere incentivate le assunzioni dei giovani e degli over 65 anni (come alternativa al pasticcio della tutela degli esodati).

La strategia nel suo complesso può riassumersi nei seguenti concetti: superamento del dualismo nel mercato del lavoro, maggiore flessibilità dell’occupazione, lotta alla disoccupazione di lunga durata. Tutto ciò anche attraverso il riconoscimento di una prestazione economica collegata alla disponibilità di partecipare a iniziative di formazione e di riconversione professionale. Sono le indicazioni del riformismo di stampo europeo, di un’Europa che deve essere sempre più integrata nelle decisioni comuni, dalle quali è irresponsabile promettere agli elettori di volersi e potersi sottrarre in modo unilaterale.