Per riformare il fatidico articolo 18 si parla di soluzione alla tedesca. Si sarebbe mai potuto comportare diversamente un governo di tecnici, protetto da Angela Merkel? In verità, la Cancelliera “c’azzecca” ben poco nelle scelte di Monti, che dipendono da una circostanza molto specifica: in teoria, il regime tedesco di protezione dei licenziamenti è quello che più si avvicina al nostro. E quindi, assumere taluni elementi di quel modello ci allontanerebbe il meno possibile dai nostri “idola tribus”. Solo in teoria, però.
Per spiegare quanto il governo sta tentando di fare può servire il ricorso a una barzelletta. Un irrecuperabile peccatore italo-tedesco si presenta, post mortem, da Satana, il quale, tenuto conto della doppia nazionalità, gli fa presente che ha diritto di scegliere se scontare la sua pena perpetua o nell’inferno tedesco o in quello italiano. Al che il malcapitato chiede quale sia la differenza. Satana gli risponde che le pene sono le stesse: c’è il giorno della frusta, quello delle fiamme, quello del gelo, quello dei chiodi, poi si ricomincia. Il fatto è – prosegue il demonio – che nell’inferno tedesco tutto funziona regolarmente, mentre in quello italiano capita spesso che manchi la frusta perché qualche diavoletto se l’è portata a casa per i suoi giochi erotici, che non arrivi la fornitura di chiodi, che non si paghi la bolletta e quindi non si accenda il gas per le fiamme eterne e così via.
Anche in materia di licenziamenti individuali la soluzione alla tedesca, proposta dal governo (ma non condivisa dalla Cgil e, pare, anche dalla Uil) è un po’ all’italiana. In Germania, spetta al giudice (che lo fa raramente) ordinare la reintegra nei casi più gravi. Di solito ha luogo la corresponsione di un’indennità che, con almeno 20 anni di servizio, è pari a 18 mensilità. Da noi, nelle aziende con più di 15 dipendenti, se il giudice considera ingiustificato il recesso, deve ordinare la reintegra nel posto di lavoro: il che irrigidisce tutto il sistema e determina, nei fatti, un atteggiamento favorevole al lavoratore.
Come cambierebbe, nella migliore delle ipotesi, tale disciplina? Nel caso di licenziamento discriminatorio (sono tutti d’accordo) resterebbero la sanzione di nullità e quindi l’automaticità della reintegra nel posto di lavoro; nel caso di licenziamento disciplinare (o cosiddetto soggettivo) spetterebbe al giudice decidere se ordinare la reintegra o limitarsi all’indennizzo; nel caso di licenziamento per motivi economici (o cosiddetto oggettivo) il giudice potrebbe imporre solo l’indennizzo (sempreché si vada in giudizio).
In via di principio, la modifica avrebbe un peso di immagine notevole, anche perché costituirebbe un passo in avanti – bisogna ammetterlo – rispetto a quanto indicato, timidamente, dal precedente governo nel documento al G20 del 26 ottobre scorso. Gli effetti pratici sarebbero modesti: i casi di licenziamento individuale oggettivo sono in numero limitato nelle aziende in cui si applica l’articolo 18 e finiscono per essere assorbiti dalla disciplina prevista per i licenziamenti collettivi (riguardanti la richiesta di almeno 5 licenziamenti) per i quali non è previsto il sindacato del giudice, ma solo un esame intersindacale. Per quanto concerne, poi, la “soluzione tedesca” per i licenziamenti disciplinari, essa non farebbe venir meno un orientamento dei giudici in prevalenza favorevole ai lavoratori.
Il sistema, comunque, diventerebbe più flessibile. In cambio, però, la sinistra otterrebbe un risultato non solo di principio ma anche effettivo: potrebbe sostenere, a buon titolo, di aver debellato quel fenomeno che essa definisce precarietà. Infatti, nelle stesse settimane in cui è impegnato a sostenere, a colpi di decreti legge, un processo di semplificazione amministrativa e di liberalizzazione delle strutture produttive e dei servizi, il governo ha presentato alle parti sociali un documento (“Linee di intervento sulla disciplina delle tipologie contrattuali”) contenente proposte assolutamente vessatorie per le imprese, che sembrano scritte da un ispettore dell’Inps orientato a pensare che tutto ciò che è lavoro deve essere a tempo indeterminato.
In sostanza, sulle tipologie contrattuali flessibili – le stesse che tra il 1997 e il 2007, pur in presenza di una modesta dinamica di crescita del Pil, hanno consentito di dimezzare la disoccupazione giovanile – cala una “cortina di ferro”, si spande una coltre di sospetto, si materializza una presunzione di illegittimità. Per potersi avvalere di tali forme di impiego, finora riconosciute dalla legge, i datori saranno costretti a subire una sorta di inversione dell’onere della prova, nel senso che dovranno essere loro a dimostrare la regolarità di rapporti altrimenti ritenuti elusivi di quel contratto di lavoro a tempo indeterminato assunto e indicato come condizione di lavoro normale e prevalente.
Se le cose non cambieranno, il risultato di questa fase di confronto sarà, dunque, un mercato del lavoro più rigido. Ben poca flessibilità in più in uscita, smantellamento, in entrata, della Legge Biagi in tema di rapporti di lavoro flessibili nei confronti dei quali è inaccettabile la presunzione culturale prima ancora che giuridica: ognuno di questi rapporti non viene considerato come rispondente a specifiche esigenze delle imprese, ma a un disegno truffaldino che l’amministrazione pubblica è tenuta a stroncare.
Non si tratta, allora, di bonificare la flessibilità, come ha scritto Maurizio Ferrera su Il Corriere della Sera di domenica scorsa, ma di soffocarla lentamente togliendole ossigeno e rendendola più onerosa sia economicamente (perché i contratti a termine dovrebbero costare di più se a essi si applicano le medesime regole di quelli a tempo indeterminato?), sia sul piano normativo, sia su quello del possibile contenzioso.
La Legge Biagi aveva affidato alla certificazione il compito di fornire alle imprese e ai lavoratori un contesto di sicurezza, fino a prova contraria, sulla legittimità dei rapporti. Ora tornerebbe tutto in alto mare. Almeno, nel decimo anniversario della sua uccisione, non lo si faccia nel nome di Marco Biagi.