Partecipando al Convegno sul lavoro svoltosi ieri a Milano ho finalmente compreso quale è la linea del Pdl sulla riforma del mercato del lavoro. L’ha spiegata con la consueta lucidità Fabrizio Cicchitto, poi l’ha riconfermata nel suo intervento il segretario Angelino Alfano. Il Pdl difende il punto di arrivo del negoziato giudicandolo un compromesso appena accettabile tra maggiori tutele in entrata e minore rigidità in uscita dal rapporto di lavoro. Era pronto a sostenere il governo se esso avesse deciso di andare avanti con quella proposta complessiva, risultato di una forte mediazione politica, purché l’esecutivo fosse disposto a metterci la faccia. L’unico modo per dimostrare tale determinazione stava nella confezionatura del provvedimento (per la cronaca, un articolato fino a oggi non esiste, ma solo un documento di 26 pagine) che sarebbe dovuta avvenire per decreto legge e non per normale atto parlamentare destinato ad andare alle calende greche, come si suol dire.



Nel formulare questa richiesta il Pdl metteva in evidenza anche un certo spirito di rivalsa nei confronti di un uso disinvolto della decretazione di urgenza, salvo che per le tematiche destinate a creare qualche mal di pancia al Pd e alla Cgil. Il Pdl lascia intendere, dunque, che non sarà disponibile a difendere il governo dalle critiche del Pd e delle opposizioni, perché si è rotto quel clima di fiducia nei confronti di una compagine che si è dimostrata troppo attenta alle critiche della Cgil e ai suggerimenti dell’inquilino del Quirinale che ha incoraggiato Monti a fare marcia indietro sull’adozione del decreto legge.



In sostanza, l’aver rinunciato al provvedimento di urgenza da parte del Governo viene vissuto dal Pdl come un ulteriore cedimento gratis alla Cgil, la quale peraltro ha già annunciato il ricorso allo sciopero generale. Alfano si è spinto ancora più avanti ammonendo il governo a lasciar perdere e a riconsegnare tale riforma alla politica nel 2013, se il risultato, oggi, dovesse essere una “riformetta”. A chi scrive non sembra che le cose stiano prendendo una buona piega. Vediamo brevemente perché.

Il dibattito, con un forte contributo del mondo dell’informazione, è concentrato sul solo articolo 18, come se tutti gli altri problemi fossero di per sé risolti. È fortemente trascurata la parte riguardante la flessibilità in entrata, anche perché è talmente andata avanti l’opera di indottrinamento sui media e in tv a proposito della mistica del precariato, che manca persino l’interesse a controllare nel merito che cosa siano e come funzionino i rapporti di lavoro flessibili, i quali partecipano del clima di sospetto da cui sono avvolti i rapporti stessi.



Ma quella del Pdl è una linea in grado di garantirsi una certa tenuta? I miei dubbi in proposito sono molti. Innanzitutto per un motivo molto semplice: che questo governo debba andare avanti è stato deciso “colà dove si puote ciò che si vuole”. Ma gli può essere consentito tutto? Ammesso e non concesso che Monti e i suoi ministri decidano di tirare diritto è evidente che dovranno negoziare con il Parlamento, dove li aspetta un Pd che la sua scelta l’ha già fatta: prevedere la reintegra affidata al giudice anche per il licenziamento per motivi economici. Poiché prima o poi il governo verrà incontro a tale istanza, resterà il solo Pdl a montare la guardia al bidone.

Sarebbe meglio allora proporre a Pd uno scambio leale: si torna alla facoltà del giudice di reintegrare anche nel caso di licenziamento economico, ma nel contempo si approfondiscano le norme immaginate per gli istituti della flessibilità. Se è destinato ad andare avanti, questo governo non può fare a meno dei voti di Pdl e Pd, quindi è bene che anche il Popolo della libertà metta in campo un pacchetto di opinioni e di proposte sui temi della flessibilità in entrata, con quali prendere parte da protagonista alla mediazione vera quando verrà il momento.