Probabilmente si tratta solo di illazioni giornalistiche. Ma è indubbio che vi sia anche un fondamento. Mentre il governo ha sospeso la sequela di negoziati inutili sulla riforma del mercato del lavoro promettendo alle parti sociali (che hanno fatto finta di credervi) di compiere ogni possibile sforzo per reperire qualche risorsa rivolta a riconoscere ulteriori benefici in materia di ammortizzatori sociali, si dice che sia vicino a esplodere il caso delle pensioni.

Il patatrac era nell’ordine delle cose. Il Governo ha dovuto allargare i criteri di deroga (in base ai quali i soggetti interessati andranno in pensione secondo le regole previgenti) includendo i cosiddetti esodati (coloro che hanno sottoscritto accordi di dimissioni volontarie in cambio di extraliquidazioni che li accompagnano all’appuntamento con la pensione e che si sono trovati spiazzati dall’incremento del requisito anagrafico previsto nella riforma Fornero). Il fatto è che – per mancanza di mezzi economici – non è stato possibile allargare la copertura finanziaria rispetto a quanto indicato inizialmente a favore dei lavoratori in mobilità, in prosecuzione volontaria, ecc. (stimati in numero di 65mila). Così la massa degli esodati (di cui non si conosce la dimensione) è entrata in campo per dividersi – senza aver esaurito, peraltro, la casistica degli interventi di deroga – le risorse destinate ai lavoratori in mobilità.

Ciò determinerà l’applicazione della clausola di garanzia con le sue ricadute sull’aumento delle aliquote degli ammortizzatori sociali e quindi del costo del lavoro, proprio nel momento in cui si cercano risorse fresche per avviare delle nuove politiche attive. Per chiarezza, ripetiamo ancora una volta, per punti sintetici, la trappola in cui rischia di finire il governo: 1. Tutti sono alla ricerca di 1,5-2 miliardi da destinare al miglioramento degli ammortizzatori sociali; 2. Nel frattempo emerge il problema di destinare maggiori risorse alla tutela di veri e propri casi sociali che la riforma delle pensioni ha messo nei guai; 3. Le risorse previste a tale scopo non bastano, 4. La legge prescrive che eventuali risorse aggiuntive vadano trovate a carico delle aliquote di finanziamento di talune prestazioni sociali. In sostanza, come in un grande gioco dell’oca, si torna alla casella di partenza. Sussiste il rischio che eventuali maggiori disponibilità siano ancora una volta drenate dalle pensioni.

Da queste riflessioni si vede quanto siano complessi i problemi. Quanto deve essere fatto è arcinoto; il problema è come riuscirci, sia sul piano economico (per quanto riguarda gli ammortizzatori), sia su quello politico (in tema di articolo 18). Già la Bce, il 5 agosto scorso, invitava le autorità del nostro Paese a una “accurata revisione delle norme che regolano l’assunzione e il licenziamento dei dipendenti”, in un quadro di migliori tutele dalla disoccupazione e di politiche attive per il reimpiego dei lavoratori licenziati.

La materia va affrontata, dunque, con determinazione, ma anche con equilibrio; con un’impostazione riformista in grado di superare il dualismo del mercato del lavoro mediante l’individuazione di un contesto di diritti uniformi, competitivi e sostenibili. Vanno rimossi, tuttavia, gli equivoci e le furbizie, evitando di irrigidire ancora di più il mercato del lavoro. Si parla di “potare” i cosiddetti contratti atipici (a termine, job on call, staff leasing, lavoro accessorio, a progetto, ecc.) come se fossero la causa della diffusa precarietà, mentre potrebbero servire – se correttamente applicati – a favorire l’occupazione in quanto rivolti a regolare esigenze specifiche difficilmente riconducibili a modelli contrattuali forzatamente standard.

Se prevalessero le suddette posizioni (care ai sindacati) il risultato non sarebbe quello di un mercato del lavoro complessivamente meno rigido ma più giusto; bensì quello di una sua ulteriore ingessatura, con ricadute negative sulle imprese e sulla stessa occupazione.