Chi non ricorda la celebre frase di Tancredi Falconieri allo zio principe di Salina, nel “Gattopardo”? “Bisogna che tutto cambi perché nulla cambi”. Probabilmente il Governo aveva presente questa ficcante considerazione quando ha riscritto la disciplina dei licenziamenti individuali nel disegno di legge che “sbarca” in questi giorni al Senato dove ha inizio l’iter legislativo, affidato a due relatori di calibro come Maurizio Castro e Tiziano Treu.

Nelle intenzioni, infatti, le modifiche avrebbero dovuto riguardare soltanto una maggiore flessibilità – invero abbastanza limitata – del giudice nell’ordinare il reintegro o l’indennizzo, nei casi di licenziamento disciplinare ed economico. In sostanza, la cosiddetta “soluzione tedesca”, re-interpretata all’italiana. Il Governo, tuttavia, non ha tenuto conto di un antico adagio giuridico: “Tre parole del legislatore sono in grado di mandare al macero intere biblioteche”. In pratica, nel Capo III del disegno di legge e nella Sezione riguardante la disciplina dei licenziamenti individuali vi sono degli aspetti che creeranno non pochi problemi agli operatori del diritto e ai giudici del lavoro.

In primo luogo, assumono un preciso profilo legislativo fattispecie di recesso finora individuate e classificate dalla dottrina e dalla giurisprudenza come il licenziamento discriminatorio, quello disciplinare o soggettivo e quello economico od oggettivo. Finora la legge si era limitata a stabilire che si potesse licenziare soltanto per giusta causa (come indicato nell’articolo 2119 cod. civ.) o per giustificato motivo. Le nuove norme ridefiniscono la materia partendo dalle motivazioni dell’atto di recesso.

Così facendo il Governo si imbatte in una prima questione invero singolare: quella del licenziamento discriminatorio. Negli anni ‘50 fece scalpore il caso Santhià, dal nome di un dipendente della Fiat licenziato “perché comunista” (da quella orrenda discriminazione ebbe origine la sua fortuna perché divenne deputato). Ma nessun datore, oggi, licenzierebbe un dipendente con una motivazione esplicitamente discriminatoria e in violazione di diritti fondamentali dei lavoratori. Il carattere discriminatorio di un licenziamento viene scoperto nel corso del processo, sulla base degli argomenti addotti dal lavoratore. Il datore – se non è uno sprovveduto – presenta in giudizio altri argomenti, in prevalenza di carattere disciplinare, avendo a carico l’onere della prova della legittimità del licenziamento. Mentre tocca al lavoratore dimostrare l’eventuale carattere discriminatorio. Si tenga, altresì, presente che i sindacati dispongono di un altro strumento di sicura efficacia per contrastare una discriminazione legata alla militanza sindacale: l’articolo 28 dello Statuto dei lavoratori.

Un’altra stranezza è la “manifesta insussistenza del fatto posto a base del licenziamento per giustifico motivo oggettivo” richiesta per consentire al giudice di annullare il licenziamento economico e ordinare la reintegra. Un fatto sussiste o non sussiste, sono i motivi che possono essere manifestamente infondati. Ma se è così, che senso ha prevedere una complicata procedura preliminare di conciliazione? In conclusione, la nuova disciplina dei licenziamenti individuali va a iscriversi nell’elenco delle tante complicazioni degli affari semplici in cui siamo specialisti in Italia.

Un’altra singolare complicazione (se ne sono accorte le imprese?) è prevista all’articolo 55 (Tutela della maternità e paternità e contrasto del fenomeno delle dimissioni in bianco). In pratica, le dimissioni delle lavoratrici (e dei lavoratori) vengono ritenute estorte specie se avvengono per causa di matrimonio, di maternità o di cura dei figli, nel qual caso è prevista una procedura particolare. Così, l’efficacia delle dimissioni della lavoratrice o del lavoratore e della risoluzione consensuale del rapporto è sospensivamente condizionata alla convalida effettuata secondo modalità individuate con decreto non regolamentare del Ministero del lavoro e delle politiche sociali, da adottare entro 30 giorni dalla data di entrata in vigore della presente legge, presso la Direzione territoriale del lavoro o il Centro per l’impiego territorialmente competenti, ovvero presso le sedi individuate dai contratti collettivi nazionali stipulati dalle organizzazioni sindacali comparativamente più rappresentative sul piano nazionale.

In alternativa al tale procedura, l’efficacia delle dimissioni della lavoratrice o del lavoratore e della risoluzione consensuale del rapporto è sospensivamente condizionata alla sottoscrizione di apposita dichiarazione della lavoratrice o del lavoratore apposta in calce alla ricevuta di trasmissione della comunicazione di cessazione del rapporto di lavoro. Come nei contratti flessibili: le imprese – affette da una sorta di peccato originale – sono soggette alla regola del colpirne mille per educarne una.

Le regole del lavoro non sono calzini che si indossano in un minuto. Richiedono lunghi periodi di assestamento tramite una giurisprudenza consolidata. Il Governo dei professori ha cambiato gran parte del diritto del lavoro – a tavolino – in un momento di recessione, quando le aziende hanno bisogno di certezze. È stata una scelta illuminata? Ne dubitiamo.