Oggi in Commissione Lavoro del Senato si chiude una fase importante del percorso legislativo del disegno di legge sul mercato del lavoro: quello della presentazione e della ordinata raccolta degli emendamenti che saranno esaminati dai relatori e successivamente votati. È abbastanza agevole prevedere come finirà. I gruppi che sostengono il governo raggiungeranno delle intese su alcuni punti, concordandole con il governo il quale però non sembra disposto a fare troppe concessioni, al punto di organizzare una serie di voti di fiducia compatibili con la formulazione di un disegno di legge anziché di un decreto d’urgenza. Per procedere mediante voti di fiducia, ci vorranno degli accorgimenti un po’ più laboriosi, ma non impossibili.

Del resto – è questo il paradosso dell’attuale situazione – il governo deve andare avanti comunque; quindi, per non correre rischi, le sue proposte devono essere approvate. E il provvedimento non può essere “snaturato” come sostiene sempre la volitiva ministro del Lavoro. Allora, sempre che le cose non peggiorino (la Cgil ha già protestato per “l’indebolimento” della lotta alla precarietà), c’è da aspettarsi qualche aggiustamento delle norme sulla flessibilità in entrata (partite Iva, contratti a termine, apprendistato) che serviranno sicuramente a correggere il testo iniziale e a contenere gli effetti degli svarioni che vi sono contenuti: un impianto complessivo squilibrato (non si è realizzato lo scambio tra maggiori tutele in entrata e minore rigidità in uscita), una nuova disciplina del licenziamento individuale confusa e pasticciata, una manipolazione dei rapporti di lavoro flessibili introdotti dalla legge Biagi, che vengono sottoposti, a fronte del verificarsi di certe circostanze di fatto individuate con modalità assai discutibili, a una pregiudiziale di illiceità, salvo prova contraria.

Alla fine, il mercato del lavoro diventerà più rigido. E questa conclusione, in una fase di recessione dell’economia, si tradurrà in nuovi vincoli per le imprese e, quindi, in difficoltà per l’occupazione. Ma come si è arrivati a tal punto? Com’è stato possibile scrivere un disegno di legge sbagliato e ostinarsi a farlo approvare? Il fatto è che in tanti sono caduti nella trappola della revisione dell’articolo 18 ovvero hanno creduto che il governo fosse intenzionato ad agire sul serio nell’affrontare il padre di tutti i tabù del conservatorismo italiano. E forse il governo ci ha pure provato. Monti e i suoi ministri hanno dimostrato più volte che la loro azione di governo si concretizza nel mandare ai mercati e ai partner europei dei segnali forti, quasi emblematici, volti soprattutto a segnalare l’indicazione di un cambiamento del Paese rispetto alle attitudini di un passato divenuto insostenibile.

Per questi motivi è stata fatta una riforma delle pensioni caratterizzata da un eccessivo rigore senza darsi compiuta cura dei problemi inevitabilmente destinati a sorgere durante la fase di transizione (e già ne vediamo le conseguenze in tema di esodati e altre tipologie di “salvaguardati” a cui applicare le previgenti regole di pensionamento). Ai mercati andava consegnato lo scalpo dell’articolo 18; magari bastava una parrucca, purché fosse somigliante. Fuor di metafora, a metà del guado, ci si sarebbe accontenti, approdati alla cosiddetta soluzione tedesca per i licenziamenti disciplinari (in verità il giudice è molto condizionato nello stabilire il reintegro o l’indennizzo), di sanzionare il licenziamento economico ritenuto immotivato soltanto con il risarcimento economico. Una soluzione siffatta non stava in piedi tanto in via di diritto quanto di fatto.

I sindacati e soprattutto la Cgil hanno avuto buon gioco nell’opporsi a tale soluzione e a condizionare il Pd in tal senso. Il governo non poteva non fare un passo indietro. Solo che, al posto di una soluzione limpida da costruire con una modifica (sul piano tecnico si dice “novella”) di 20-30 parole del fatidico articolo 18, si è combinato un pasticcio criticabile innanzitutto sul piano tecnico giuridico (fa rabbia pensare che, per motivi politici, tale fricandò di norme è praticamente immodificabile). In sostanza, per un gioco perverso del destino (gli dei confondono sempre la mente di coloro che vogliono perdere), è successo che il governo, durante il negoziato, ha concesso alla Cgil il 95% di quello che chiedeva. Lo scontro politico e sociale si è spostato allora su quel 5% che mancava; ovvero sul riconoscimento della possibilità, per il giudice, di comminare il reintegro, non solo il pagamento dell’indennizzo (peraltro di ammontare veramente esagerato), anche in quello di licenziamento economico.

Tutti a quel punto – dal PdL alla Confindustria (non Rete impresa Italia che aveva colto da subito il vero problema) – si sono sbracciati per invitare il governo a non concedere la quota rimanente, magari ricorrendo persino al decreto legge. Che follia sarebbe stato blindare un provvedimento sbagliato e dannoso! Si può, al solo scopo di fare dispetto al Pd, allora in difficoltà con la Cgil, condannare un Paese ad avere una pessima legge sul mercato del lavoro, senza che sia stato possibile neppure esaminarla a fondo? Fino a che punto il tatticismo politico può consentire di prendere a calci nel sedere i cittadini che hanno dei seri problemi?

In extremis, dopo che il governo ha concesso alla Cgil pure il 5% che mancava, il Pdl è riuscito ad accorgersi che il vero problema non stava più nel simulacro dell’effige dell’articolo fatidico, ma nella mortificazione della flessibilità in entrata. Questa pur tardiva intuizione ha fornito al partito una linea di condotta e una discreta agibilità politica in rappresentanza del mondo delle imprese, anch’esso nel frattempo accortosi, tramite le sue associazioni, di quanto stava per capitare.

Un’analisi più lucida della situazione ha messo in evidenza che era inutile rincorrere quel 5% mancante, quando gli interessi del Pdl erano massicciamente inclusi in quel 95% di concessioni che la Cgil aveva già incassato prima del 23 marzo, nel “silenzio degli innocenti”. Vedremo gli sviluppi, ma questa riforma dei visiting professors non lascia ben sperare.