La recessione si fa sentire pesantemente sul lavoro: il tasso di disoccupazione a febbraio è salito al 9,3% e di 1,2 punti su base annua. Nel rendere noti questi dati l’Istat si sofferma a sottolinearne i riferimenti con altre epoche particolarmente complesse della storia nazionale recente. E sempre più spesso viene evocato quel 1992, in cui la bancarotta del Paese fu evitata in extremis e grazie a una coraggiosa stagione di sacrifici e di riforme.



L’andamento della disoccupazione giovanile nelle coorti comprese tra 15 e 24 anni (prima o poi verrà pure il momento di assumere dei riferimenti più credibili per il mondo del lavoro giovanile) svetta al di sopra del 30% e ciò non può che destare una viva preoccupazione nell’assistere alla ripetuta conferma di un fenomeno (che non è solo italiano, ma che da noi è più accentuato che in altri Paesi) di cui non si riesce a invertire la tendenza.



Eppure il mercato del lavoro non è del tutto fermo. Lo dimostrano le ricostruzioni di Pietro Ichino nei suoi brillanti articoli su Il Corriere della Sera (è veramente singolare che tocchi a un insigne studioso prestato alla politica sviluppare e interpretare dei dati altrimenti trascurati dai tanti agitatori di luoghi comuni); ma soprattutto lo mettono in evidenza le stesse statistiche (provvisorie) dell’Istat che tanta eco hanno avuto nel dibattito. In effetti, non solo aumenta il numero dei lavoratori adulti (+164mila), ma anche quello degli stranieri (+170mila), anche se il loro tasso di occupazione scende di quasi un punto.



Siamo avvertiti del fatto che occorre prudenza nel valutare i dati riguardanti i lavoratori stranieri perché spesso includono gli effetti di regolarizzazioni che non denotano occupazione aggiuntiva. Ma i numeri contano e sono significativi. Va poi da sé che molte statistiche sulla disoccupazione nelle regioni del Sud nascondano sacche di lavoro sommerso che concorrono comunque a determinare un reddito ben visibile negli stili di vita.

Ma come ha reagito il governo a fronte dell’ennesimo monito proveniente dalla recessione dell’economia e dai suoi effetti sull’occupazione? Chissà perché Monti e i suoi ministri sembrano convinti che il disegno di legge sulla riforma del mercato del lavoro rappresenti la risposta ai problemi dell’occupazione, di quella giovanile soprattutto. Ci permettiamo di dubitarne; anzi siamo proprio convinti che – così come è impostato nel documento sulle linee guida – il progetto del governo non favorirà affatto l’occupazione e ostacolerà la ripresa economica.

Basta mettersi nei panni di una qualsiasi impresa che scruti all’orizzonte qualche timido e incerto segnale di ripresa, che veda muoversi il portafoglio-ordini con nuove commesse, tali da assicurare qualche mese di attività con l’apporto di maestranze aggiuntive. Per fare fronte ai picchi produttivi la nostra azienda vorrebbe assumere lavoratori con contratti a termine: si accomodi pure, ma deve sostenere un costo più elevato perché questa tipologia lavorativa viene scoraggiata. Può ricorrere alla somministrazione: ma chi gli garantisce che alla fine, dopo aver sostenuto gli oneri previsti, non gli facciano causa agitando il cosiddetto “causalone” (il motivo generalgenerico richiesto per fare ricorso alla somministrazione di lavoro a termine) per ottenere l’assunzione a tempo indeterminato?

Le medesime preoccupazioni potrebbero ripetersi in altre fattispecie lavorative. Così alla fine verrebbe spontanea una domanda: ha un senso irrigidire il mercato del lavoro – mettendo le briglie alla cosiddetta flessibilità in entrata a fronte di una modifica dell’articolo 18 invero modesta – proprio nel momento in cui si profila una crisi che si è inevitabilmente scaricata sull’occupazione? È credibile che l’alternativa alla disoccupazione giovanile si trovi forzatamente nel contratto di lavoro “prevalente” a tempo indeterminato?

Ci auguriamo che i segnali di dialogo tra le più importanti forze politiche si concretizzino e assumano quello spessore che consentirà al Parlamento di correggere una discutibile riforma.

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