Ci siamo lasciati alle spalle un Primo Maggio triste. Per tante ragioni. L’economia è in recessione, l’occupazione è in forte sofferenza, il governo rivela sempre nuovi limiti (la nomina dei “tecnici dei tecnici”, al di là del valore delle persone coinvolte, sfiora il paradosso), la politica si avvita su se stessa dimostrando di avere una sola preoccupazione: che Monti e i suoi ministri tirino a campare il più a lungo possibile, allo scopo di evitare di misurarsi con un elettorato pronto a far pagare alla classe dirigente il fio dei sacrifici che la popolazione è costretta a compiere per di più nell’incertezza sul futuro.



I leader sindacali, più tronfi e arroganti del solito, hanno scelto Rieti (forse come esempio della sterminata provincia italiana) per comunicare urbi et orbi le loro approssimative terapie che farebbero uscire il Paese dalla crisi e promuoverebbero la crescita. Il ministro Elsa Fornero, intervenendo alla cerimonia del Quirinale, ha intonato il Magnificat per la sua riforma del lavoro, sollecitandone una celere approvazione, ma facendosi garbatamente riprendere da Giorgio Napolitano, il quale ha voluto ricordare che i tempi brevi il governo deve meritarseli consentendo alle forze politiche di trovare quelle intese utili a migliorare il testo del provvedimento.



La differenza d’impostazione c’è e si vede. E non è solo una questione di opportunità politica e di rigore istituzionale (attinente al riconoscimento del ruolo del Parlamento), ma le parole del Presidente lasciano intendere che non vi è nessun atto di lesa maestà se vengono apportate talune modifiche al disegno di legge. Già, Napolitano. Il suo è stato un grande discorso politico, ricco di stimoli e di contenuti. Un discorso per nulla rituale, scevro da ogni tentazione di retorica e particolarmente severo non solo con qualche uscita estemporanea della Lega e dei sindaci del Carroccio, in tema di Imu, ma anche – pur a un livello più elevato – con alcuni schemi ideologici della sinistra.



Il Presidente, infatti, si è soffermato con lucidità ed efficacia sull’ineluttabilità del cambiamento e sulle conseguenze che esso determina nelle convenienze economiche, nelle regole e nei comportamenti delle persone. Non è possibile, in tale contesto, arroccarsi in difesa del passato con la pretesa di ritenere immutabili le conquiste maturate in altre fasi storiche connotate complessivamente da differenti condizioni e rapporti. È un’affermazione, questa, molto attuale, con riferimento proprio al dibattito sulla riforma del mercato del lavoro e all’atteggiamento tenuto da importanti soggetti sociali. Ma se qualcuno, a Rieti, non avesse ben inteso, Napolitano è stato ancor più preciso, quando ha ricordato di aver assistito, nel lontano 1950, alla presentazione del Piano del lavoro della Cgil.

Con un crescendo rievocativo, il Presidente ha ricordato che, nonostante le gravi polemiche politiche di quella fase, ben tre autorevoli ministri parteciparono a quel Convegno e vi presero la parola, ascoltati con attenzione e rispetto (oggi la Cgil fischia persino il sindaco di Rieti e organizza a Milano un presidio antifascista contro la celebrazione dell’anniversario dell’uccisione di un ragazzino neofascista negli anni di piombo). Quello di Napolitano è stato dunque un invito ai sindacati e alla Cgil ad avanzare delle proposte, a pensare in grande, a fornire così un contributo alla ricerca di una via d’uscita dalla crisi.

Ma che cosa era il Piano del lavoro? E perché venne adottato? Schiacciata, nel dopoguerra, tra una sinistra all’opposizione e l’esigenza di assumere una strategia che rendesse in qualche modo credibile l’atteggiamento di intransigenza assunto per contrastare i processi di ristrutturazione e i licenziamenti di massa, il gruppo dirigente della Confederazione socialcomunista inventò e propose, nel suo Congresso del 1949, il Piano del lavoro, consistente in un programma di valorizzazione delle risorse interne e di espansione economica, secondo un’impostazione vagamente keynesiana. In cambio la Cgil si dichiarava disponibile a una politica di moderazione salariale.

Infatti, nella risoluzione votata dal Congresso stava scritto a questo proposito: “Il congresso dichiara che i lavoratori italiani sono pronti a dare il loro contributo diretto alla realizzazione di questo piano e che la Cgil è pronta a dare il suo appoggio a un governo che dia le dovute garanzie per la sua attuazione”. Il Piano venne, poi, presentato, nel 1950, in due convegni nazionali: uno svoltosi a Roma a febbraio (dove partecipò il giovane Napolitano), un altro a Milano a giugno. Le iniziative raccolsero un’ampia partecipazione di personalità della politica e dell’economia e richiamarono l’attenzione dell’opinione pubblica.

L’orientamento del Piano del lavoro era totalmente alternativo alle tendenze che andavano consolidandosi sui mercati internazionali e, sostanzialmente, finiva per rinchiudersi in una logica autarchica. Eppure, quello fu un momento alto nell’elaborazione della Cgil non solo perché il Piano forniva respiro politico all’azione dei partiti di sinistra allora in estrema difficoltà, dopo la sconfitta del 1948. L’elaborazione del Piano divenne un punto di riferimento per le lotte prive di reali prospettive in cui la Cgil era impegnata contro i licenziamenti.

Qui, in fondo, pur nella tragedia di una strategia sbagliata e già sconfitta, sta la “statura” del gruppo dirigente della Cgil di allora. La confederazione rossa era impegnata a contrastare, in modo radicale, i processi di ristrutturazione che espellevano dalle grandi imprese migliaia di lavoratori. Ma come e quanto a lungo la Cgil avrebbe potuto resistere e avere un minimo di credibilità nell’arroccarsi in decine di fabbriche dai nomi celebri a lungo occupate (spesso in un contesto di partecipazione comunitaria), senza darsi nel contempo una strategia di politica economica a cui fare riferimento per indicare una via d’uscita dalle situazioni di crisi?

Ecco, allora, la vera funzione del Piano del lavoro, chiamato a tracciare quella linea di politica economica alternativa, seguendo la quale avrebbero potuto trovare soluzione anche le singole vertenze delle fabbriche in sofferenza. Ovviamente le cose non stavano così. Ma l’elaborazione teorica aveva comunque una sua dignità e una sua base scientifica. Quelli erano, però, altri tempi, che solo un anziano Presidente può ricordare oggi, forse rendendosi conto per primo di essere ispirato unicamente da sentimenti di nostalgia.