Anche il Rapporto annuale 2012 non ha esitato a portare il contributo dell’Istat alla mistica del precariato, dimostrando una volta di troppo che pure dei dati statistici si può fare l’uso più conveniente. Forte, secondo l’Istat, è l’influenza della tipologia del primo impiego sulle prospettive di carriera a lungo termine. Tra i nati nel decennio ’80, la percentuale di coloro che entrano nel mercato del lavoro con un impiego atipico è pari a circa il 45%; era del 31,1% e del 23,2% rispettivamente per i nati negli anni ‘70 e degli anni ‘60.
Tra le persone che hanno cominciato a lavorare con un contratto atipico, il 29,3%, dieci anni dopo, è ancora in una situazione di precarietà, una quota importante ha subito persino un peggioramento della propria condizione lavorativa (il Rapporto lo definisce “mobilità discendente”) e il 10% non è più occupato. Al contrario, quando il primo rapporto è a tempo indeterminato dopo 10 anni è in atto un livello ancora elevato di stabilità.
Dal momento che non sono le norme in grado di favorire l’occupazione occorrerà pur riconoscere che, piuttosto che le effettive ragioni dell’economia, è la vischiosità giuridica del contratto a tempo indeterminato (si torna quindi alla rigidità in uscita) a determinare la sua sostanziale immodificabilità nel tempo. Per di più, tra i nati negli anni ‘60 su 21,7 anni di presenza media sul mercato del lavoro, i lavoratori “sempre standard” hanno lavorato per 21 anni; quelli che hanno avuto un contratto atipico solo per 19 anni, 8 dei quali trascorsi in regime di precarietà. Per i nati negli anni ‘70 a fronte di 12,5 anni di presenza sul mercato del lavoro, i “sempre standard” hanno lavorato per circa 12 anni, gli altri solo per 10,7 anni metà dei quali in condizioni di precarietà.
Naturalmente – conclude la sintesi del Rapporto – questi divari sono tanto più forti quanto più bassa è la classe sociale di partenza, soprattutto nei periodi di crisi. A parte il fatto che varrebbe la pena di chiedersi se e come periodi lavorativi tanto brevi abbiano dato luogo a trattamenti pensionistici, da tali elementi si possono trarre differenti valutazioni. La prima – la medesima che traspare anche dal testo dell’Istat – è la solita: la precarietà produce effetti significativi sulle scelte di vita e sulle prospettive reddituali a medio e a lungo termine. Evviva, l’Istat ha riscoperto l’acqua calda! Eppure, poco prima di esercitarsi nel delineare l’amaro destino dei precari, il Rapporto aveva inquadrato i dati succitati nel contesto di una mobilità sociale molto bassa, inferiore rispetto al passato e tale da rendere più difficile per i giovani il miglioramento della propria posizione.
In realtà, ancora una volta ci è stata fornita una rappresentazione del dualismo del mercato del lavoro: quanti, pochi o tanti che siano, riescono ad agguantare un contratto a tempo indeterminato arrivano generalmente tranquilli alla pensione, senza che la loro condizione subisca delle sostanziali modificazioni; chi non si avvale di questa opportunità, invece, resta fuori a battere i denti al freddo della precarietà. In fondo, di qui passa la faglia del nostro mercato del lavoro che neppure il disegno di legge Fornero riuscirà a mettere in sicurezza.
Altre riflessioni significative emergono dalla lettura dei dati sull’occupazione, a testimonianza dei cambiamenti del mercato del lavoro. Tra il 1993 e il 2011 il tasso di occupazione è aumentato di tre punti percentuali. In tale arco temporale vi è stato, nonostante l’apporto degli immigrati, un leggero calo dell’occupazione maschile, mentre si riscontra l’aumento di 1,7 milioni (+22,2%) di quella femminile (l’Italia mantiene comunque una performance ancora inadeguata). Il fatto è che – come negli altri paesi dove è sviluppato l’impiego delle donne – tale risultato, che la crisi non ha ancora eroso del tutto, è dovuto alla diffusione del part time, soprattutto nel centro-nord. Tuttavia, l’Istat ci tiene a sottolineare che, in larga misura, si tratta di lavoro a tempo parziale “non volontario”, come se questa tipologia lavorativa continuasse a portare seco un pregiudizio negativo.
Visti i tempi che corrono può sollevare il morale ricordare la serie storica del tasso di disoccupazione in Italia: era il 9,7% nel 1993, poi è salito fino all’11% negli anni successivi, per scendere sino al 6,1% nel 2007 e risalire all’8,4% nel 2011. All’inizio degli anni ’90, la quota di reddito da lavoro dipendente sul totale del valore aggiunto era vicina al 47%. Dopo una discesa di circa cinque punti fino ai primi anni 2000, è risalita al 45% negli ultimi tre anni. Tuttavia le retribuzioni contrattuali tra il 1993 e il 2011 sono rimaste immutate in termini reali (a fronte di una variazione dello 0,4% medio annuo di quelle di fatto). In tale periodo il carico fiscale e contributivo sulle famiglie è passato dal 28,5% al 29,3%. Quanto alla composizione del reddito disponibile è cresciuta la quota delle retribuzioni (dal 39,4% al 42,8%), mentre sono diminuite le voci del lavoro autonomo e del reddito da capitale. La propensione al risparmio ha avuto una flessione tra il 1992 e il 2011 di oltre 13 punti, mentre la quota delle prestazioni sociali è passata dal 25,4% al 32%.
In conclusione, il quadro complessivo che emerge presenta parecchi punti deboli, ma si ha l’impressione chiara che, almeno per adesso, il sistema regga, sia pure con crescente fatica.