Ci mancava solo questo: la revisione della disciplina del licenziamento individuale perde per strada il pubblico impiego. A stare a quanto prevede un’intesa raggiunta tra il ministro Filippo Patroni Griffi e le organizzazioni sindacali, ai dipendenti pubblici continueranno a essere applicate, in caso di recesso dal rapporto di lavoro, le regole vigenti. Pertanto, se il giudice adito dovesse ritenere ingiustificato il licenziamento potrà ordinare solo il reintegro nel posto di lavoro.



Questa regola dovrebbe essere inserita in un disegno di legge delega a modifica di taluni aspetti della riforma Brunetta, riportando importanti materie nel dominio esclusivo di quella contrattazione collettiva il cui ambito era stato ridotto e orientato nei provvedimenti del governo precedente. Eppure l’articolo 2 del disegno di legge Fornero indicava, in materia di licenziamento, un percorso diverso, laddove prevedeva che le disposizioni contenute nel disegno di legge, costituissero “principi e criteri per la regolazione dei rapporti di lavoro dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni”.



Ovviamente la cosa non poteva passare inosservata. Persino i grandi quotidiani che non hanno ancora smesso – nonostante tutto – di reggere la coda a Mario Monti se ne sono accorti e lo hanno fatto notare. Così, colto in castagna, nei giorni scorsi, dal quotidiano di via Solferino, Patroni Griffi ha brandito carta e penna e ha inviato una lettera, pubblicata il 6 maggio, nella quale spiega i motivi della scelta compiuta e dà conto degli argomenti a sostegno.

A volerne commentare sinteticamente il contenuto si potrebbe parlare di un evidente tentativo di arrampicarsi sugli specchi. Bontà sua, il ministro ci ricorda che i dipendenti pubblici sono diversi da quelli privati, tanto che i primi hanno più doveri dei secondi “perché servono la nazione e non un singolo imprenditore”. Proprio così. Ma non è finita. Ci stavamo ancora interrogando sulle sue parole, quando il titolare della Pubblica amministrazione ci appioppa un’altra considerazione shock. “Mentre il datore di lavoro privato – scrive Patroni Griffi con un formalismo troppo ingenuo per non apparire ingannevole – ha il diritto di pagare di tasca propria un lavoratore licenziato anche ingiustamente anzi che riassumerlo, questo non vale e non può valere per lo Stato”.



Tali affermazioni, tuttavia, non sono soltanto temerarie sul piano politico, ma anche del tutto infondate su quello tecnico-giuridico, in quanto nel disegno di legge Fornero è sempre prevista la possibilità di ricorrere al giudice, al quale compete comunque la scelta, nei casi previsti, di sanzionare il datore o con il reintegro o con la corresponsione dell’indennizzo (poi ridotto – si fa per dire – nel caso di licenziamento economico a un range compreso tra 15 e 24 mesi). Inoltre, nessuno ha mai messo in discussione che le regole del recesso per motivi economici, indicate nel disegno di legge, non dovessero valere automaticamente nel pubblico impiego, per ovvi motivi di diverso contesto e per il fatto che è già prevista una disciplina specifica per le amministrazioni pubbliche, ancorché non applicata.

Inoltre, escludendo il caso del licenziamento discriminatorio, il problema si pone, anche nel pubblico impiego, solo alla fattispecie del licenziamento disciplinare, per la quale veramente non si comprendono i motivi che impediscono di adottare la “soluzione tedesca” anche per i dipendenti pubblici, in analogia con quanto previsto per quelli privati. È a questo punto che il ministro cala l’asso: se i dirigenti pubblici potessero essere licenziati previo indennizzo come i privati – secondo Patroni Griffi – i padri costituenti si rivolterebbero nella tomba e verrebbe esposta “la dirigenza all’arbitrio del politico di turno (e le casse pubbliche a qualche problema)”.

Ma come? Non c’è sempre di mezzo un giudice? O forse il ministro pensa ancora che la “soluzione tedesca” non si applichi al licenziamento cosiddetto economico (la cui normativa, comunque, non varrebbe in alcun modo per pubblici dipendenti)? Insomma, un grande pasticcio.

Intanto, corre voce che il voto del Senato sulla riforma Fornero slitti in avanti dovendo cedere il passo, in Aula, al disegno di legge costituzionale sul riordino della governance della Repubblica, onde consentirgli di ottenere la doppia lettura entro la fine della legislatura. Speriamo che ciò avvenga e che rappresenti un primo segno del destino di questo provvedimento. Se dovesse finire su di un binario morto risparmieremmo non pochi problemi al futuro di questo sventurato Paese.