Il decreto legge sulla spending review viene convertito oggi dal Senato (con il voto di fiducia) dopo giorni di intenso dibattito, attraverso il quale – come ha affermato il sottosegretario all’Economia, Gianfranco Polillo, che ha seguito il provvedimento per conto del Governo – il testo si è trasformato in una sorta di legge finanziaria definita in una settimana. È presto per esprimere un giudizio su di un insieme di norme tanto articolate, riguardanti diverse materie, sottoposto a numerosi cambiamenti pur a fronte di saldi invariati. Emergono però taluni aspetti parecchio discutibili che ricordano, appunto, le Finanziarie di una volta.
Ed è proprio in presenza di questi episodi che viene da chiedersi come si esprima il potere in Italia, fino a stupirsi di come talune situazioni visibilmente inadatte a svolgere le funzioni a cui sono chiamate finiscano per sopravvivere anche in contesti di forte razionalizzazione e di contenimento degli apparati e della spesa pubblica. Prendiamo il caso della sanità. Il Governo, inizialmente, era andato all’attacco di quelle strutture ospedaliere diffuse un po’ in tutto il territorio nazionale, ma concentrate soprattutto nelle regioni meridionali che, a causa delle loro inadeguate dimensioni organizzative e tecnologiche, si sono trasformate in officine produttrici di primariati e di posti di lavoro pubblici, senza essere in grado di assistere adeguatamente chiunque a esse si rivolga per avere ricovero e cure.
Eppure, le coalizioni di interessi che si mettono in movimento in queste circostanze sono talmente potenti da resistere a ogni cambiamento, perché intrecciano i poteri politici locali, le loro clientele e propaggini burocratiche-amministrative, sempre pronte a mobilitare i cittadini in difesa dell’ospedale sotto casa. Ma quel che è più grave sta nel fatto che queste battaglie di retroguardia trovano un’incomprensibile impatto nella cattiva coscienza delle ideologie, per cui la minaccia di chiudere un presidio ospedaliero in qualche sperduta località si trasforma in un attacco alla sanità pubblica. E, più in generale, il tentativo di contrastare gli sprechi del sistema sanitario (Dio sa quanti ce ne sono!) diventa ben presto un’inaccettabile mortificazione del diritto alla salute dei cittadini.
Così, da alcuni decenni a questa parte (almeno dall’inizio dagli anni ‘90, poi più marcatamente dai primi anni del nuovo secolo) quando si devono realizzare dei risparmi nel settore sanitario si va a colpire l’industria farmaceutica (mentre si ha un occhio di riguardo, ad esempio, per le farmacie). Nella Finanziaria 2001, il Governo Amato, a fini elettorali, decise di smantellare, partendo proprio dall’assistenza farmaceutica convenzionata, un sistema equilibrato di quote di partecipazione a carico dei cittadini (i ticket), istituito insieme alla riforma del 1978 per moderare i consumi, come avviene in tutti i Paesi europei.
Dopo l’abolizione delle quote di partecipazione, la spesa farmaceutica schizzò subito alle stelle, creando enormi difficoltà, prima di tutto alle Regioni, chiamate a svolgere un ruolo primario nella governance del Servizio. Peraltro, il dato anomalo della spesa sanitaria (determinato dall’impennata della spesa farmaceutica) fece “saltare” l’intesa intervenuta tra il Governo e le Regioni avente per oggetto la quantificazione del debito delle Asl in vista del decentramento dei poteri.
Il Governo di centrodestra si guardò bene dal ripristinare semplicemente i ticket aboliti (un tema da allora affidato alla competenza delle Regioni che ne hanno fatto un uso estremamente cauto), ma preferì adottare – attraverso ben otto provvedimenti – misure dirigistiche e coercitive sul prezzo dei farmaci che hanno penalizzato l’industria produttrice. Da allora – salvo qualche breve pausa illuminata – la spesa farmaceutica ha continuato a svolgere il ruolo del capro espiatorio. Anche nella spending review è passata la stessa logica: i medici del Servizio sanitario nazionale sono obbligati a prescrivere, in ricetta, il principio attivo, non più il farmaco, come se fosse scorretto pubblicizzare un prodotto su cui la casa produttrice ha investito risorse, ricerca e lavoro.
Certo, le pillole e le supposte non sono come i formaggini o le acque di colonia o le automobili e quant’altro. Ma perché colpire nuovamente il mercato di un’industria qualificata come quella farmaceutica (che ha decine di migliaia di posti di lavoro e che sviluppa ricerca) anziché intervenire più decisamente su di una struttura che serve soltanto a chi ci lavora? Ma questa è una storia vecchia.
Spigolando con una certa approssimazione tra le norme ci siamo imbattuti in un’altra stranezza. Nel decreto, il Governo, lo stesso che nel “Salva Italia” aveva istituito il “mostro” del Super-Inps (destinato a diventare il più grande ente previdenziale del mondo) ha fatto una clamorosa marcia indietro sull’Ivarp. Di che cosa si tratta? Nel decreto sulla spending review era prevista la soppressione dell’Isvap (l’istituto di vigilanza sulle assicurazioni) e della Covip (la Commissione di vigilanza sui fondi pensione). Ambedue gli enti sarebbero confluiti nell’Ivarp (Istituto di vigilanza sulle assicurazioni e sul risparmio previdenziale), sotto la tutela di Bankitalia. Una scelta corretta e utile, sicuramente in grado di dare maggiori garanzie al settore.
Per uno di quei misteri che rimangono incomprensibili, forze potenti (bipartisan) si sono mosse in difesa della Covip, tanto che, alla fine, la Commissione è stata risparmiata. E pensare che la Covip non è la Fed; ha una cinquantina di dipendenti e finora ha potuto svolgere la sua funzione nella previdenza complementare per un motivo piuttosto banale: il settore non è molto sviluppato. Il fatto è che la Commissione è una specie di sine cura di sindacalisti in disarmo, il cui potere, evidentemente, è più o meno lo stesso – presso le forze politiche – dei primari delle infermerie travestite da policlinici.