Il tormentone degli esodati non conosce tregue, nonostante il decreto legge sulla revisione della spesa ne abbia individuati e finanziati altri 55 mila. Prima della pausa estiva, la Commissione lavoro della Camera ha varato, come se si trattasse di un saldo di stagione, una proposta di legge che ha l’ambizione di risolvere, in un sol colpo, quel groviglio di questioni che sono riconducibili al tema dei cosiddetti salvaguardati, ovvero a quei casi che saranno risparmiati dall’applicazione dei nuovi requisiti di accesso al pensionamento disposti dall’articolo 24 del decreto Salva Italia (dl 201/2011) e dalle successive modifiche introdotte nel decreto milleproroghe. Il provvedimento ha un chiaro sapore elettorale perché è destinato a morire in Commissione bilancio a causa dell’insufficienza di copertura.
Prima di ogni altra considerazione, tuttavia, è opportuno tener presente che buona parte dei risparmi derivanti dal decreto sulla revisione della spesa è servita a far salire a 120mila i casi di quanti andranno in quiescenza con le precedenti regole. La copertura necessaria è quindi salita a un importo complessivo a regime di circa 9 miliardi. Sono stati così garantiti (ecco i primi 65 mila) non solo i lavoratori in uscita nel corso del 2013, ma anche una quota di quelli che usciranno nel 2014.
Al di là dell’attenzione che meritano tante situazioni di carattere personale, messe in difficoltà, nei loro progetti di vita, dal forte e inatteso inasprimento dei requisiti anagrafici introdotti dalla riforma Fornero, sarà ora di rendersi conto che la strada delle deroghe (ovvero dell’individuazione delle categorie risparmiate dai nuovi requisiti) non conduce da nessuna parte, perché risulta impossibile – e l’inconcludente “guerra dei dati” lo dimostra – provvedere con equità a tutte le fattispecie meritevoli di tutela.
La legge ha individuato già una ricca casistica di fattispecie prevalentemente gestite attraverso forme collettive o documentabili (lavoratori in mobilità, in regime di versamenti volontari, sottoscrittori di accordi di esodo, inseriti in fondi di solidarietà, ecc.): come è sempre avvenuto in analoghe circostanze, tale casistica, oggettivamente insufficiente a rispondere a tutte le richieste di tutela, impone, per mere ragioni contabili, l’adozione di requisiti selettivi d’accesso, attraverso le classiche modalità a cui ricorre il legislatore (le decorrenze, il numero dei contributi versati, l’età anagrafica, il livello di pubblicità dell’atto, ecc.).
Ed è proprio il limite strutturale del metodo delle deroghe a creare sentimenti di frustrazione negli esclusi, fino a generare spinte sostanzialmente abrogative della riforma, perchè non avrebbe senso vantarsi del sistema pensionistico più rigoroso nell’Ue e constatare nelle stesso tempo che esso è costellato di deroghe, tanto da essere applicato in minima parte.
Fermo restando quanto disposto sinora, la via d’uscita può essere quella di inserire nel sistema, quale misura sperimentale di flessibilità, a valere per tutti (esodati e non), una forma di pensionamento anticipato volontario, che richieda, a regime, un’età anagrafica di 61-62 anni e un requisito contributivo di 35 anni, a fronte però del corrispettivo di una prestazione liquidata interamente con il calcolo contributivo.
L’idea nasce da una norma vigente poco conosciuta e ancor meno usata. La introdusse il ministro Roberto Maroni nelle legge n. 243 del 2003; consentiva alle lavoratrici, in via sperimentale fino a tutto il 2015, di andare in pensione facendo valere 57 anni di età e 35 di contributi. In questa legislatura la norma è sopravvissuta a tutte le riforme salvo essere sottoposta all’obbligo di sottostare alla finestra mobile di 12 o 18 mesi prima di accedere al trattamento pensionistico. Per chi si avvale di tale opzione la prestazione è calcolata interamente con il metodo contributivo, anche con riferimento ai periodi antecedenti il 1996.
E’ la penalizzazione economica la principale ragione dello scarso utilizzo di tale facoltà. Ora, però, dopo l’introduzione pro rata del calcolo contributivo a partire da 1° gennaio di quest’anno, la norma potrebbe essere valutata in una diversa prospettiva. Così, se la si estendesse anche agli uomini e si incrementasse gradualmente il requisito anagrafico, la disposizione potrebbe diventare, pur in un ambito di penalizzazione economica revisionata e corretta, un’opportunità che consente di ovviare in parte a quella inadeguata considerazione della fase di transizione di cui è sofferente la riforma Fornero.