Sono sicuramente prematuri i primi bilanci sugli effetti della riforma del lavoro (legge n. 92 del 2012); la valutazioni emerse denotano tuttavia una diffusa preoccupazione del mondo dell’imprese nell’orientarsi ad applicare le nuove norme, soprattutto per quanto riguarda i c.d. contratti flessibili. Il timore diffuso è che molti datori interrompano i rapporti di collaborazione con effetto immediato, evitino di rinnovare quelli scaduti, in attesa di comprendere quali siano le conseguenze effettive dei cambiamenti. Probabilmente si assisterà ad una sorta di staffetta da una forma di flessibilità presa particolarmente di mira (le collaborazioni ad esempio) ad un’altra (come i i contratti a termine) a cui sono riconosciuti dodici mesi di libertà dal c.d. causalone. Ma la regola generale sarà quella di agire con prudenza, evitando il più possibile di infilarsi in situazioni che possano imporre assunzioni a tempo indeterminato, in una fase tanto critica come l’attuale.
Le parti sociali, al di là degli omaggi rituali alla mistica del precariato, si stanno rendendo conto dei guai che possono derivare da un’applicazione talebana della legge. Lo hanno fatto durante tutto l’iter legislativo. Non è un caso che la quota prevalente delle modifiche al testo iniziale abbiano riguardato proprio la materia – sulla carta intessuta di ideologismo – della c.d. flessibilità in entrata. E’ stato altrettanto significativo che Cgil, Cisl, Uil e Confindustria abbiano sottoscritto l’avviso comune del 5 luglio che è stato di grande aiuto, alla Camera, per formulare l’emendamento al decreto sviluppo con il quale si è dato corso alle prime modifiche della legge Fornero. Analoga considerazione può essere fatta per l’emendamento sulla conferma, secondo le regole previgenti, dei rapporti di collaborazione nei call center: una norma che ha consentito di salvare alcune decine di migliaia di posti di lavoro ed un intero settore industriale, condannato altrimenti alla delocalizzazione o alla chiusura.
Ma un cenno ancor più particolare merita la recente intesa intervenuta alla Golden Lady. L’azienda del mantovano produttrice di calze aveva assunto le commesse dei negozi della distribuzione (1200 in tutta Italia) con accordi di partecipazione, la forma contrattuale “ferita a morte” dalla legge Fornero. A suo tempo, noi ci eravamo chiesti se non fosse velleitario pensare che fosse sufficiente una norma per trasformare nel giro di poche ore in lavoratori subordinati e stabili oltre 50 mila associati in partecipazione. Alla prova dei fatti, si è dimostrato che il dubbio era più che fondato. Tanto che le parti sociali, alla Golden Lady (l’azienda che ha chiuso l’Omsa di Faenza, delocalizzandone la produzione in Serbia) non hanno esitato a prendersi un anno di tempo per affrontare la questione dell’assunzione a tempo indeterminato, derogando così dall’applicazione della legge.
Già, una deroga. E per poterlo fare si sono serviti di quell’articolo 8 inserito dal ministro Sacconi nella manovra estiva del 2011 del Governo Berlusconi che, a suo tempo, sollevò un mare di polemiche, tali da indurre la Confindustria a sottoscrivere un patto con i sindacati che, nei fatti, rappresentava una dichiarazione di disponibilità a non tener conto ed avvalersi delle opzioni fornite dalla norma. Lo fece anche a costo di indurre la Fiat a dissociarsi. Come si vede, allora, il tempo è galantuomo.