«La mia storia con l’Ilva è quella di una grande passione. Questa fabbrica è un posto insieme durissimo e affascinante. Una delle più grandi d’Europa. I nastri trasportatori, gli altiforni, l’acciaieria. Una macchina perfetta. Con rumore, odore e calore. Non un’azienda di cioccolatini. E, dentro, noi uomini e donne che lavoriamo e, scusi il linguaggio un po’ datato, lottiamo per i nostri diritti». Sono parole di Stefania De Virgilis, madre di Alessia, una bambina di 2 anni e in dolce attesa, all’ottavo mese di gravidanza, del fratellino. Questa giovane donna, che sa esprimersi con tanta orgogliosa dignità (in un’intervista a Il Sole 24 Ore di sabato 4 agosto rilasciata a Paolo Bricco) è una sindacalista dei metalmeccanici della Uil, eletta a 28 anni nella Rsu dello stabilimento di Taranto. «L’Ilva non deve chiudere. – aggiunge – Qui per cento anni l’alternativa è stata tra la siderurgia e la Marina. Non vorrei che per i prossimi cento anni l’alternativa diventasse tra la Marina e il crimine».
In attesa che il Tribunale si pronunci sull’istanza di dissequestro tra pochi giorni, è doveroso partire dalle parole di Alessia per ricordare, sia pur sinteticamente, quale sia la posta in gioco, non solo per quello stabilimento, ma per il gruppo nel suo insieme (essendo l’area a caldo di Taranto un impianto integrato per tutte le produzioni siderurgiche). L’Ilva è il più grande stabilimento siderurgico d’Europa, i suoi laminati servono – e non solo – tutta l’industria manifatturiera nazionale. E che dire di Taranto? L’acciaieria rappresenta il 75% del Pil di quel territorio e il 76% della movimentazione del porto (uno scalo su cui vi è un forte interesse dei cinesi per farne il principale hub per le loro merci nell’Europa meridionale). Per il solo approvvigionamento delle materie prime dell’Ilva (il suo parco geo-minerario è di ben 78 ettari) approdano nel porto, annualmente, ben 1300 navi. L’85% dei prodotti Ilva transita per il porto. In sostanza, tra occupazione diretta e indiretta, 20mila famiglie, solo a Taranto, dipendono dall’Ilva.
Se questa è la fotografia della situazione, molto interessanti sono anche le prospettive per quell’area, alla luce del protocollo d’intesa del 26 luglio scorso, degli stanziamenti pubblici previsti (336 milioni) per la bonifica ambientale e degli impegni assunti dal gruppo, in un rapporto di collaborazione con le autorità nazionali e locali e con le organizzazioni sindacali. Certo, come ha detto Alessia, l’Ilva non produce cioccolatini. Ma i suoi impianti, un tempo fatiscenti «oggi sono in linea con lo standard di settore». Questo è un punto importante, anche sul piano delle responsabilità penali e civili e dei provvedimenti da adottare.
È fin troppo facile affermare che lavoro e salute non possono essere in alternativa tra di loro. La tutela della sicurezza e della salute dei lavoratori ha costituito l’embrione di quei diritti sociali che hanno formato, nel tempo, un moderno sistema di welfare. Basta risalire alla fine del XIX secolo per trovare l’affermazione, nelle prime legislazioni di carattere sociale, del principio del “rischio professionale” in forza del quale il datore, proprio perché si avvale del lavoro dei propri dipendenti, ha il dovere di garantire loro condizioni di sicurezza e di risponderne in presenza di eventi negativi quali gli infortuni e le malattie professionali sulla base di una presunzione assoluta della pericolosità del lavoro, soprattutto in ambienti in cui siano operativi e funzionanti, in autonomia, impianti e macchinari.
Le normative più recenti (ma risalenti ormai a parecchi decenni) hanno individuato, progressivamente, dei nessi di responsabilità dell’impresa nei confronti del territorio circostante. Così esistono precise regole sulle emissioni, gli scarichi, lo stoccaggio dei materiali di scarto, specie se pericolosi, e quant’altro: regole la cui frequente violazione ha prodotto devastazioni ambientali inaccettabili, avvelenando i fiumi, il mare, l’aria, la terra, le acque. Nel contesto della globalizzazione la possibilità o meno di saccheggiare il territorio (al pari di quella di sfruttare la forza di lavoro) è diventata una componente di quella corsa alla competitività che spesso non si dà cura di quanto può diventare un costo, un vincolo o un impedimento.
Ma la legislazione in materia di tutela ambientale (come in tema di sicurezza del lavoro) si è evoluta ed evolve in conseguenza di tanti fattori, tra cui è prevalente l’apporto innovativo della tecnologia, ma non sono estranei anche gli aspetti economici. Si pensi – l’esempio è stato fatto in Aula alla Camera dal ministro Corrado Clini – alle emissioni dei motori diesel installati sulle autovetture: venti anni or sono erano ammesse in misura quasi doppia di quella consentita oggi. Basti pensare ai diversi “bollini” numerati in sede europea (indicativi del grado di inquinamento prodotto) che contraddistinguono le automobili in circolazione. Ma si è mai visto un giudice che, all’uscita di una nuova direttiva che raccomanda modelli dotati di una tecnologia più avanzata e sicura, ordini la rottamazione di tutte le auto fabbricate in precedenza secondo regole meno severe?
Eppure anche le polveri sottili provenienti dal traffico urbano provocano la diffusione dei tumori. E perché non proibire il tabacco, abbattere le viti, chiudere le distillerie? Vi è sempre un rapporto biunivoco tra l’essere umano e l’ambiente in cui vive. Ai tempi dei nostri nonni e bisnonni si moriva di fame, di pellagra, di malaria, magari di influenza (ricordate la cosiddetta Spagnola che seminò milioni di vittime nel mondo?) a un’età in cui, oggi, i giovani si pongono il problema se sia venuto il momento di lasciare la casa paterna e mettere al mondo dei figli. Adesso, anche le patologie sono differenti. Ma dal Paradiso Terrestre Adamo ed Eva furono cacciati milioni di anni fa. Da allora nessuno ci ha più rimesso piede. E anche nel giardino dell’Eden, vi era un frutto nocivo: quella stessa mela che, mangiata ai nostri giorni una volta al giorno, “toglie il medico d’attorno”.
Fuor di metafora, come ha confermato il ministro dell’Ambiente alla Camera (è in atto un tentativo miserabile di infangarlo con la solita intercettazione), lo stabilimento è stato progressivamente autorizzato in ciascuna delle fasi di aggiornamento degli impianti e delle procedure secondo le disposizioni di volta in volta vigenti. Mentre le indagini in corso fanno riferimento a impianti che a quel tempo operavano nel rispetto delle leggi e avevano ricevuto le dovute autorizzazioni da parte delle autorità competenti. Probabilmente, anzi, gli impianti e le tecnologie a cui sono imputati standard anomali di tumori oggi non esistono più.
In ogni caso, se vi sono dei problemi si dettano delle prescrizioni e si impone all’azienda di adempiere: non si arrestano impianti che non possono essere fermati senza subire danni gravissimi. È facile fare demagogia! Ma non esiste nessuna giustizia che lasci dietro di sé un deserto. Che cosa d’altro dovrebbe fare un imprenditore se quanto ha disposto viene riconosciuto conforme alle norme di legge in materia di sicurezza e tutela ambientale? Lasciamo stare, per carità di patria il caso dell’amianto (la cui lavorazione è stata proibita soltanto a partire dall’inizio degli anni ‘90) e prendiamo quello più recente del terremoto nel cuore dell’Emilia Romagna.
Quest’area era considerata non a rischio sismico fino a pochi anni or sono. Ed era esclusa dalle relative mappe. Dove hanno sbagliato quegli imprenditori che hanno costruito capannoni con tecnologie non antisismiche e che oggi sono chiamati a rispondere di omicidio colposo? Ecco, allora, che il caso dell’Ilva di Taranto diventa un paradigma della possibile salvezza dell’Italia, ancor più della spasmodica rincorsa degli spread. Esiste in molte circostanze, da noi, l’atteggiamento incoerente di chi vorrebbe sviluppo, lavoro (l’età media dei dipendenti dell’Ilva di Taranto ha 32 anni) e benessere, ma ne rifiuta i corollari inevitabilmente negativi.
È il caso del rifiuto ideologico dell’energia nucleare oppure delle sollevazioni popolari contro i termovalorizzatori, gli inceneritori, le discariche controllate. Come se ci si accanisse contro i processi produttivi necessariamente sottoposti, proprio per la loro alta dose di rischio, a protocolli di sicurezza, nello stesso momento in cui si consente all’economia sommersa – magari avvalendosi di braccia straniere – di provvedere, brutalmente e senza alcuna forma di tutela, ad assicurare quanto si nega all’economia emersa e regolare. Ma sì: perché non chiudere l’acciaieria! E mettere in cassa integrazione, con le stesse modalità dell’Alitalia, i suoi dipendenti. Magari facendo assumere gli impiegati dalla Regione Puglia (non fa così, da sempre, anche la Sicilia?). Poi, a suo tempo, si costruisce su quell’area (bonificata) la più grande Disneyland dell’Europa meridionale, facendo lavorare, ovviamente, soltanto lavoratori immigrati.
E l’acciaio? Lo si acquista dai cinesi, così come si mandano le nostre immondizie in trasferta in paesi meno schizzinosi del nostro. È questo il nuovo modello di sviluppo?