L’intervista fatta a Sergio Marchionne da Ezio Mauro, pubblicata ieri da La Repubblica, non fa una grinza ed è condivisibile e convincente: ovviamente per quanti hanno l’onestà intellettuale di misurarsi con i problemi in nome di un realismo imposto dalle scelte da compiere nel contesto di un’economia globalizzata che sanziona con l’espulsione dal mercato le imprese che commettono errori.
Il ragionamento dell’ad del Lingotto è molto semplice: nell’attuale condizione del settore dell’auto si impone un rallentamento (e una revisione) del programma Fabbrica Italia, perché non avrebbe senso investire in modelli che adesso resterebbero invenduti nei piazzali e che, nel 2014, quando è prevista una ripresa della domanda (ora annichilita in conseguenza della crisi e della riduzione delle disponibilità delle famiglie), sarebbero vecchi e non competitivi.
A prova delle sue argomentazioni Marchionne cita il caso della Panda prodotta a Pomigliano, a suo avviso la migliore della storia: “800 milioni di investimento e il mercato non la prende, perché il mercato non c’è”. Eppure la Fiat nel 2012 “guadagnerà più di 3,5 miliardi a livello operativo, tutti da fuori Italia, netti di quasi 700 milioni che perderà nel nostro Paese”. E un’azienda, per sua e nostra fortuna divenuta globale, che rifiuta di tornare indietro di dieci anni per ritrovarsi a essere soltanto un’impresa italiana (questa scelta ne segnerebbe la fine) sa bene che se sviluppa un’auto in America e poi la vende in Europa guadagnandoci ciò non deve fare la differenza.
Alla spietata lucidità del manager italo-canadese, da noi, sanno contrapporre solo istanze etiche, moti dell’anima e velenose e arroganti critiche personali. E come in un recente passato la Confindustria “marca visita” quando si tratta di difendere le ragioni della Fiat. E tutto l’establishment “peracottaro” del Paese è arrivato a tirare le sue conclusioni catastrofiche: la Fiat se ne vuole andare e per questo non onora gli impegni a investire 20 miliardi come aveva promesso.
Non serve a Marchionne di ricordare che alla ex Bertone sia stato investito un miliardo e a Pomigliano 800 milioni; non gli serve far capire che le politiche di un grande gruppo sono costrette a muoversi sul tapis roulant dei mercati internazionali e a tener conto dei loro cambiamenti. E non serve neppure ribadire che la Fiat resterà in Italia nonostante la persistenza di un conto economico che non riesce a diventare minimamente attivo. È facile fare paragoni con la Volkswagen, un gruppo che può contare su di un mercato interno assai più ampio e affezionato e che, soprattutto, ha potuto usufruire di riforme al momento giusto e di un sistema di relazioni industriali assai più solido e responsabile di quello italiano (l’ad sottolinea le 70 cause intentate dalla Fiom, ma dimentica di richiamare il mantello di Arlecchino delle sentenze caratterizzate da differenti orientamenti a seconda dei tribunali).
Il Governo si è mosso con cautela nonostante le pressioni ad agire (per fare che, poi?). Per alcuni giorni è sembrato persino problematico poter incontrare Sergio Marchionne (che invero non ha mai fatto storie a confrontarsi con i propri interlocutori). Poi, si è saputo che Monti lo incontrerà sabato insieme al “giovin signore” che rappresenta la famiglia azionista (o ciò che resta di essa). L’incontro deve servire, almeno, a capire le intenzioni dell’azienda, cercando di farsi carico dei suoi problemi e di contribuire, nella misura del possibile, ad affrontarli.
I margini di iniziativa del Governo sono modesti: vanno poco al di là della moral suasion. Ma se si intravedesse l’opportunità di provvedimenti che siano nella disponibilità dell’esecutivo e che non violino nessuna regola riguardante il divieto degli aiuti di Stato, ma che si muovano sul versante del recupero di maggiore produttività e di migliori condizioni di lavoro, il sistema Paese deve reagire con giudizio e responsabilità.
Quando la Fiat mise in campo le sue esigenze per gli stabilimenti di Pomigliano e di Mirafiori venne sottoposta a un vero e proprio linciaggio mediatico. Anche adesso sembra esservi maggiore comprensione per il problemi posti dai possibili acquirenti dell’Alcoa in tema di costi dell’energia che non per le misure necessarie a preservare la resistibile vocazione del Lingotto nel rimanere saldamente attaccato alle proprie radici. Il Paese – il secondo in Europa per importanza dell’industria manifatturiera – corre dei pericoli serissimi. Da un lato, nel profondo Sud, l’Ilva rischia la chiusura con pesanti ricadute sull’intera struttura produttiva italiana; dall’altro capo della penisola è l’industria dell’auto, con il suo carico di indotto, che può definitivamente “correre al di là del mare”.
Quanto grandi siano le colpe di forze irresponsabili, nella magistratura e nel sindacato, sta sotto gli occhi di tutti.