Mi capita sempre più spesso di chiedermi per quale motivo il sistema massmediatico sia coralmente impegnato nel gioco allo sfascio di questo povero Paese. L’amara riflessione non riguarda solamente l’informazione “urlata” che fa dello scandalismo (senza curarsi affatto delle tossine nocive che diffonde ed alimenta nell’opinione pubblica) un’opportunità per la vendita di copie prima ancora che di lotta politica (in Italia abbiamo i quotidiani “amici” della magistratura militante, i quotidiani-partito, quelli – soprattutto di centro destra – che fanno politica in proprio cercando di orientare il Pdl e quant’altro). Anche la grande stampa paludata ha subìto – quando non ne è stata protagonista – i veleni che, strada facendo, hanno messo in quarantena il sistema istituzionale democratico, fino al punto di essere costretti, oggi, ad asserragliarsi a difesa della Cittadella del Quirinale, ormai presa d’assalto con le medesime logiche, metodologie ed azioni che, in un breve lasso di tempo, hanno determinato la caduta di tutti gli altri fortilizi e consentito al vento dell’antipolitica di divenire un tifone che pretende di spazzare via tutto. In quest’articolo, tuttavia, vogliamo parlare di un particolare aspetto della comunicazione (ormai è quella televisiva per sua natura ostile all’approfondimento a dare la linea): come si affrontano le gravi problematiche di ordine economico, produttivo e dei loro riflessi sul terreno dell’occupazione.



Che la situazione del Paese versi in enormi difficoltà è a tutti evidente; che sia arduo intravvedere prospettive è sicuramente vero. Ma quando mai il caos può rappresentare una soluzione? Non è giusto né corretto, infatti, raccogliere tutte le istanze, anche le più diverse tra loro, e sostenerle acriticamente come se, in qualche modo, ci fosse la possibilità di risolverle tutte assieme. Si pensi ad esempio a come vengono presentati i dati sulla disoccupazione, giovanile in particolare. Si dice che tra giovani su dieci, in età compresa tra 15 e 24 anni (l’indicazione della coorte è significativa, ma spesso viene omessa), sono disoccupati. In realtà, la percentuale si riferisce, in quella fascia d’età, al numero di giovani che hanno un lavoro o sono attivi nel cercarne uno, non a tutta la popolazione (tra 15 e 24 anni), perché se così fosse le statistiche si fermerebbero al 10%. E che dire della solita litania del precariato? Più ancora di essere sbagliato è disonesto sommare i dati della disoccupazione con quelli dei rapporti temporanei. Questi ultimi – che costituiscono un’esigenza insopprimibile dell’economia e dell’organizzazione produttiva e dei servizi e che da noi sono in linea con gli standard europei – sono regolati dalla legge e dai contratti e rappresentano pur sempre un lavoro e un reddito, soprattutto in una stagione critica come l’attuale. Non sono l’anticamera della disoccupazione, ma una risposta all’inattività e al lavoro sommerso. Tanto più adesso che ci si sta rendendo conto dei possibili effetti negativi della riforma del lavoro (legge 92/2012) sull’occupazione, nonostante le positive modifiche introdotte dalle Camere in materia di flessibilità in entrata.



Ha un senso, allora, denunciare la possibilità che la riforma Fornero determini maggiore disoccupazione e che debba essere revisionata e, nello stesso tempo, agitare, come una minaccia a chi sa quale ordine sociale, l’esistenza di rapporti di lavoro temporanei, quando sono in tante occasioni i soli impieghi possibili? Invece, il leitmotiv di tutti i talk show televisivi è quello dello sfascio senza speranza, della rabbia priva di sbocchi. Anche i casi delle grandi vertenze del lavoro vengono presentati in modo esasperato come se si dovesse parlare alla pancia e non alla testa dei cittadini. Consideriamo per un momento le vicende della CarboSulcis e dell’Alcoa, in Sardegna. Quei lavoratori in lotta vanno sicuramente tutelati anche sul piano dell’informazione. Delle loro vicende si deve ampiamente parlare. Ma è giusto che sia l’intensità della esposizione mediatica a determinare anche le priorità di intervento?



Nessuno si impegna a spiegare che quella miniera e quella fabbrica chiudono non perché i padroni sono cattivi e i governi inefficienti, ma perché vi sono regole di mercato e condizioni produttive che non consentono di mantenere in vita, in modo proficuo, le loro attività. Perché costa meno comperare il carbone piuttosto che estrarlo lì, per giunta di peggiore qualità. Perché un’azienda multinazionale che ha bisogno di molta energia per il suo ciclo produttivo non può continuare a pagarla ad un prezzo non competitivo e lo stato non può continuare a caricare sconti – al limite della legittimità rispetto al divieto europeo di aiuti pubblici che alterino la concorrenza – sulla bolletta degli italiani.

Non ha senso impiegare risorse importanti per sostenere posti di lavoro divenuti improduttivi; anzi, questo è il modo per remare contro lo sviluppo, perché sono i posti di lavoro “finti” a togliere ossigeno a quelli “veri”. Negli ultimi giorni cominciano ad apparire articoli di opinionisti onesti e coraggiosi (si veda da ultimo l’articolo di Enrico Cisnetto su Il Messaggero di domenica) che mettono in evidenza l’insostenibilità delle rivendicazioni di quei lavoratori; ma è la spettacolarizzazione della vertenza a tenere banco. I sindacati (che hanno dirigenti competenti e responsabili) ne sono consapevoli, ma anche loro vengono travolti dall’impatto sull’opinione pubblica, che ad un certo punto – si veda l’atto di quell’operaio che si è tagliato un braccio – induce a gesti clamorosi sul piano mediatico, come se fossero i soli a contare (condivisibili le considerazioni di Dario Di Vico sul Corriere della sera di domenica) anche a costo di scatenare una devastante ancorchè inconcludente rincorsa imitativa. Certo, non bastano le promesse, servono i fatti. Ma è un conto condurre campagne e lotte orientate a cercare delle alternative, un altro difendere accanitamente la realtà esistente se è ormai insostenibile.