Non opero ergo sum: per le organizzazioni sindacali scioperare è come recarsi a uno sportello pubblico per ottenere un certificato di esistenza in vita grazie al quale potranno ancora riscuotere la pensione di vecchiaia. Ma poiché la politica ha dei riti di cui non riesce a fare a meno, anche i programmi di astensione dal lavoro hanno il loro peso a prescindere dal loro esito. E vanno interpretati. Scioperare per quattro ore in modo articolato è ancora una risposta “politicamente corretta”, un segnale più forte delle classiche due ore di assemblea, ma non è uno sciopero generale. Un’astensione di questa misura vuol significare, per Cgil, Cisl e Uil, che il rapporto con l’esecutivo non è interrotto e che le confederazioni sindacali intendono fare un po’ la faccia feroce per strappare, negoziando, qualche risultato anche nell’interesse e su mandato della Confindustria (come avveniva nella Prima Repubblica).
Tutto sotto controllo; almeno per ora. Il governo rimane ancora sotto la tutela politica dell’establishment. E ha tempo per rimediare sul cuneo fiscale. Attenzione però a crearsi soverchie aspettative. Nel progetto (ammesso e non concesso che sia possibile darselo con i tempi che corrono) manca un disegno “vero” a medio termine. Si continua a operare al “margine”, ma esso è esaurito da tempo come dimostra, tra l’altro, la progressione delle cifre fornite per l’intervento: 5 miliardi nel 2013; 3,3 nel 2014; 3,5 nel 2015. Si sarebbe potuto osare di più, solo predisponendo nel frattempo un’azione tesa a riorganizzare la spesa pubblica indicando traguardi più ambiziosi da conseguire. La riduzione ipotizzata è invece 0,6 miliardi nel 2015 e 1,2 nel 2016 a fronte di una spesa pubblica complessiva di circa 800 miliardi. In percentuale: meno dello 0,1% nel 2015 e lo 0,15% nel 2016.
Per ottenere risultati più convincenti è necessario condurre una due diligence, soprattutto sulla finanza locale, visto che essa pesa per il 60% (come risulta dall’audizione parlamentare di Fabrizio Saccomanni) sulla spesa totale. La sua opacità – frutto del sommarsi di due distinti canali di finanziamento: i trasferimenti a carico del bilancio dello Stato e le imposte locali – impedisce qualsiasi controllo di merito sulla relativa gestione. Ma si sa, guai a chi tocca gli enti locali: così, anche per il 2014 ai Comuni saranno corrisposti 2,9 miliardi in più. Si deve aggiungere che il potenziale fiscale dei Comuni sugli immobili è di oltre 8/9 miliardi. Nel 2012 esso è stato solo parzialmente utilizzato, ma nulla vieta che questo atteggiamento non possa cambiare. L’intervento a favore della produzione (cuneo fiscale e sgravi per le imprese e i lavoratori) è insignificante. Questi i primi calcoli: reddito 10 mila euro anno: 49,19 euro all’anno; reddito 30 mila euro anno: 107,5; reddito 40 mila euro anno: 64,5; reddito 50 mila euro anno: 21,5.
Per evitare la colossale presa in giro che queste cifre inducono occorrerebbe riportare le relative risorse lungo il filone della detassazione delle quote di retribuzione definite negli accordi aziendali di produttività; oppure le Parti sociali dovrebbero coltivare di più le esperienze di welfare aziendale già sufficientemente diffuse nelle imprese più grandi. Tali esperienze potrebbero garantire ai lavoratori dei servizi all’interno di una vasta gamma di esigenze, anche personalizzate, al posto di miglioramenti salariali che sarebbero taglieggiati dalle tasse. Ma questa scelta strategica risponderebbe a una logica che tanto i sindacati quanto la stessa Confindustria stentano a fare propria quale asse centrale della sola politica retributiva utile e possibile.
Non ci vuole molto a capire che un taglio consistente al cuneo fiscale e contributivo comporterebbe degli oneri improponibili allo stato dei conti pubblici. Così diventerà inevitabile smontare l’attuale impostazione e concentrare le risorse su alcuni settori del mercato del lavoro (è questa la linea di difesa di Letta) in particolari condizioni di difficoltà; ma non si venga a dire che, per questa via, si riduce il costo del lavoro, quando invece si fa solo una forma di assistenza, da cui le imprese non trarranno nessun vantaggio in termini di competitività.
Per quanto riguarda lo sgravio d’imposta Irap per il passaggio di un lavoratore dal tempo determinato a uno indeterminato si tratta di 585 euro per ciascuno dei 3 anni. Sulla casa, invece, l’introduzione della Tasi a copertura dei servizi indivisibili (luce, manutenzione strade, ecc.) di fatto riproduce il gettito (Imu) complessivo del 2012 (24 miliardi) con la sola riduzione di 1 miliardo di trasferimenti in più a carico del bilancio dello Stato (grazie all’allentamento del Patto di stabilità). Ipotesi che sconta comportamenti degli enti locali analoghi a quelli del 2012. Se invece l’uso della propria capacità fiscale (fino a un massimo di circa 30 miliardi) dovesse essere attivata, l’entità del prelievo potrebbe essere superiore. Infine, l’ulteriore prelievo per la Tari (gestione dei rifiuti) non è quantificata, ma rimessa alla determinazione di ciascun Comune, con ulteriore aggravio per i cittadini. Per completare il quadro, va ricordato che a favore dei Comuni e delle Regioni si paga già l’addizionale Irpef. Si rischia, pertanto, di pagare due volte per gli stessi servizi.