Settimana che passa polverone che viene sollevato. In quella che si è appena chiusa all’onore delle cronache della pratica del confondere le idee alle persone pur di fornire notizie fosche (sembra che il compito dei media sia diventato quello di diffondere allarme sociale) è stata una frase che il superpresidente del superInps, Antonio Mastrapasqua, ha pronunciato, tra le tante, durante un’audizione presso la Commissione bicamerale di vigilanza. Della frase incriminata ricordiamo il senso: Mastrapasqua ha detto più o meno che il bilancio dell’Inps non è come quello che può apparire dall’esterno. Visto che il documento contabile presenta un deficit di una decina di miliardi e che si è fortemente assottigliata la situazione patrimoniale, ci voleva poco a pensare che il presidente dell’Inps in verità cercasse di rassicurare piuttosto che gettare ulteriori preoccupazioni in un contesto di per sé difficile. Che cercasse di dire cioè che non c’era nulla di recondito e che i conti erano migliori di quanto non apparisse dalle nude cifre. Invece, in tanti, a partire dai sindacati hanno interpretato quelle affermazioni come se venisse loro nascosta una realtà ancora peggiore.



Lo sappiamo, l’Italia è un Paese che ha un particolare riguardo per il sistema pensionistico, per cui un leggero venticello si trasforma ben presto in un uragano. Di che cosa si tratta? Nella circostanza della fusione, l’Inpdap si è portata appresso un disavanzo più o meno corrispondente a quello che l’Inps ora lamenta avendolo avuto in dote. Tale deficit, oltreché da aspetti di carattere strutturale e permanente (blocco del turn over nel pubblico impiego, ridimensionamento “strategico” degli organici, ecc.), dipende da una norma maligna del 2007 (legge finanziaria 2008) che ha trasformato in anticipazioni di Tesoreria (e quindi in debiti dell’ente verso lo Stato) gli iniziali trasferimenti (e quindi crediti dell’Inpdap verso lo Stato) stanziati dalla legge Dini del 1995 a copertura dello stock delle pensioni degli statali, quando venne istituita la loro Cassa.



È questa una storia complessa che merita di essere raccontata, sia pure in breve. Prima della legge n. 335/1995, le Amministrazioni dello Stato si limitavano a incassare la quota di contribuzione dovuta dai loro dipendenti (un terzo di quella complessiva); poi, quando essi cessavano dal servizio, le Amministrazioni erogavano direttamente i trattamenti spettanti in termini di cassa come gli stipendi. Con l’istituzione della Gestione pensionistica degli statali presso l’Inpdap (l’ente era stato costituito in via definitiva nel 1994), le amministrazioni hanno dovuto cominciare a versare alla Gestione stessa la loro quota in quanto datori di lavoro. Si pose il problema di come far fronte allo stock delle pensioni in essere, erogate senza che vi fosse mai stata la corrispondente copertura contributiva. Così lo Stato si impegnò per legge a trasferire, annualmente, il corrispettivo 14mila miliardi di vecchie lire alla Gestione, dal momento che essa si prendeva in carico il servizio.



Questo stanziamento, che nel frattempo si è tradotto in euro (circa 8 miliardi), ha subito quella trasformazione in anticipazioni a cui accennavo in precedenza. Ciò per alleggerire di qualche miliardo la posizione debitoria del bilancio dello Stato presso gli attenti censori di Bruxelles. Ma da questa situazione esiste una via d’uscita? Separare di nuovo gli enti non avrebbe senso (anche se ci vorranno degli anni per mandare a regime l’unificazione) perché comunque resterebbe sempre il “buco” dell’Inpdap, che è pur sempre un ente che eroga pensioni e altre prestazioni previdenziali. La soluzione potrebbe essere contenuta nel passato, perché non è la prima volta che l’Inps deve misurarsi con siffatti marchingegni contabili.

La pratica di erogare coperture per le prestazioni istituzionali tramite anticipazioni anziché trasferimenti è vecchia come il cucco. Il Tesoro vi aveva fatto ricorso negli anni ‘80 per finanziare, in parte, la cosiddetta spesa assistenziale sostenuta dall’Inps, tanto che l’Istituto aveva accumulato una situazione patrimoniale deficitaria per 160mila miliardi di lire, poi azzerata nel 1998 grazie all’azione dell’allora ministro Carlo Azeglio Ciampi. Ovviamente, quella misura aveva rivoltato in positivo il bilancio Inps fino ad allora deficitario in conseguenza di regole contabili poi rivelatesi parecchio discutibili, perché era evidente che lo Stato non avrebbe mai preteso di incassare quel debito che appesantiva solo il bilancio dell’Inps con tutte le conseguenze anche di immagine che ne derivavano.

Nel 1998 l’operazione azzeramento fu possibile nel quadro delle vicende che accompagnarono l’ingresso nell’euro (si pensi solo al colossale abbattimento dei tassi di interesse di cui si è avvantaggiato il nostro Paese). Oggi è sicuramente più difficile che Fabrizio Saccomanni si prenda la briga e abbia le possibilità del suo illustre predecessore. Tuttavia, l’occasione potrebbe esserci proprio nel fatto che si deve portare a termine il progetto del grande Inps.

Ed è bene che siano eliminati i trucchi contabili. Non ci sarebbe un maggior esborso di cassa, ma una maggiore trasparenza, come sempre accade quando si riconosce a “Cesare” quanto gli appartiene.