Il ministro Elsa Fornero è diventata un personaggio scomodo anche per la lista di Mario Monti? Si direbbe, infatti, che non convenga, in campagna elettorale, parlare delle riforme a lei intestate. Ma se il governo Monti ha credito in Europa ed è stimato all’estero lo deve soprattutto alle due riforme volute dal ministro del Lavoro: quella delle pensioni e quella del mercato del lavoro. Sicuramente il riordino degli ammortizzatori sociali (entrato gradualmente in vigore da quest’anno) è la parte più valida e interessante della legge n. 92 del 2012.
I motivi di questo giudizio sono diversi. Innanzitutto, è un titolo di merito essere riusciti a varare una riforma del settore dopo almeno quattro legislature in cui i governi non erano riusciti a venire a capo di nulla. In secondo luogo, le nuove norme sugli ammortizzatori sociali sono state oggetto – non è sempre stato così per altri aspetti della legge – di un adeguato confronto con le Parti sociali che ha reso più agevole, su questo punto, l’iniziativa del Parlamento diversamente da quanto è avvenuto per altre materie (in particolare, per le modifiche vessatorie riguardanti la cosiddetta flessibilità in entrata). Infine, è apprezzabile la gradualità dell’andata regime dell’Aspi (il 2018) a opera di un ministro che, in materia di pensioni, è stata molto più spiccia.
L’obiettivo della riforma consisteva nell’individuare strumenti uniformi di tutela sia per le vecchie che per le nuove tipologie professionali nel caso di sospensione temporanea o di perdita del lavoro, in un ambito in cui fossero operanti ed efficienti adeguate politiche attive del lavoro. La legge ha assecondato compiutamente tale disegno? Credo di no, non certo per cattiva volontà dell’esecutivo, ma a causa degli ostacoli che si sono presentati sul suo cammino. A partire dalle limitate risorse disponibili che hanno consentito solo parzialmente quell’ampliamento e quell’estensione universalistica delle tutele che sarebbe stata necessaria a dare più adeguata protezione al lavoro flessibile.
Questa (riconoscere a tutti i rapporti di lavoro forme di protezione sociale tendenzialmente uniformi) sarebbe stata la vera misura da adottare per riunificare il mercato del lavoro, anziché pretendere di ricondurre forzatamente e il più possibile all’interno del rapporto di lavoro a tempo indeterminato le forme disciplinate dalla legge Biagi, trascinandole, come pretendeva di fare la riforma, all’interno di un contesto intessuto di vincoli, obblighi, pregiudiziali di illegittimità e aumenti del costo del lavoro, come se fosse disponibile una scorciatoia normativa per venire a capo della cosiddetta precarietà.
Viene da chiedersi allora dove stia il contenuto di innovazione che il ministro Elsa Fornero lascerà dietro di sé. Per farsene una ragione occorre collegare tra di loro le misure in materia di previdenza e le politiche del lavoro. La titolare del welfare si è proposta di interrompere la prassi di porre il sistema pensionistico (tramite l’accesso precoce al trattamento di anzianità assunto quale sbocco e prosecuzione di un percorso di anni all’interno della rete degli ammortizzatori sociali e degli incentivi alla risoluzione consensuale del rapporto) al servizio dei processi di riconversione e ristrutturazione produttiva. Un prassi abusata, ma divenuta insostenibile, perché in palese contrasto con l’esigenza di elevare l’età pensionabile effettiva, di garantire un minimo di equilibrio nei sistemi pubblici a ripartizione (in conseguenza dell’evoluzione delle dinamiche demografiche e delle loro ricadute sul marcato del lavoro), nonché di assicurare che i risparmi sulla spesa pensionistica concorrano al risanamento dei conti pubblici. Sulla sponda opposta a quella dell’intervento sull’età pensionabile (l’anzianità è stata “ferita a morte” dalla riforma) si trova l’istituzione dell’Aspi, che, a regime, semplificherà e ridurrà i periodi di copertura degli ammortizzatori sociali.
Ecco dunque i temi cruciali delle riforme: gli stessi che ne costituiscono, nel medesimo tempo, i punti di forza e di debolezza. Non a caso, le critiche si sono concentrate proprio sul trait d’union tra pensioni e mercato del lavoro per quanto riguarda il tormentone degli “esodati”, gonfiato, anche sul piano mediatico, ma che ha richiesto onerosi interventi di salvaguardia per la bellezza di 9,3 miliardi di euro in un decennio. Ma sta bene innovare, ma a fronte di quali alternative? La questione di fondo è quella di decidere se tutto dovrà restare come prima, per anni e per centinaia di migliaia di persone, trasformando la riforma delle pensioni in un’impalcatura severa in Europa ma “gattopardesca” in Italia; oppure, se potrà essere spezzato quel legame perverso e oneroso nella gestione del personale anziano, i cui meccanismi sprecano capitale umano e risorse pubbliche.
Il ruolo degli ammortizzatori sociali, dei servizi per l’impiego, della formazione è dunque decisivo per cambiare passo e abitudini. Nella legge 92/2012, il ministro Fornero ha abbozzato una via alternativa grazie alle politiche attive, all’Aspi e all’istituzione dei fondi di solidarietà. Ma i nuovi percorsi faranno in tempo a divenire credibili oppure saranno resi vani dal ripristino, nella prossima legislatura, delle correzioni di cui parlano le formazioni di centrosinistra e la Cgil?
Ecco perché la sfida riformista di Elsa Fornero potrà reggere soltanto alla condizione di un vero e proprio salto di qualità nel campo delle politiche attive, in proficua collaborazione con gli operatori pubblici e privati che fanno del placement una mission di funzione o d’impresa. Per coloro che perdono il lavoro in età matura la sola alternativa non dovrà più essere quella di trascorrere alcuni anni, prima in cassa integrazione poi in mobilità (ovvero a consumare un’extraliquidazione) in attesa di poter accedere alla pensione, in età inferiore ai 60 anni. Chi resta disoccupato, da anziano, dovrà poter avere un’altra opportunità per rientrare nel mercato del lavoro. Altrimenti vinceranno sempre quelle forze che non vogliono cambiare.
Per questi motivi, occorre prevedere forme incentivanti e di placement per il re-impiego dei disoccupati ultracinquantacinquenni.