Da anni alla Fiat si sta combattendo un guerra tra i vertici del gruppo e quelli della Fiom. È una guerra senza esclusione di colpi, ma, a modo suo, si svolge secondo delle regole. Maurizio Landini e i suoi perseguitano l’azienda non solo sul piano mediatico, avvalendosi del singolare appoggio di cui godono sui teleschermi, ma anche su quello giudiziario (giacché a livello sindacale possono ormai fare ben poco, vista la perdita di influenza della Fiom negli stabilimenti del gruppo), dove si è creata una situazione a macchia di leopardo: il più delle volte le sentenze sono favorevoli alla Federazione dei metalmeccanici della Cgil, ma capita anche che qualche giudice dia ragione al Lingotto.



Ovviamente, nella pubblicistica di regime, quando una Corte sentenzia come chiede Landini si grida subito che “giustizia è fatta!”. Quando accade il contrario si riapre la sagra dei diritti conculcati. L’ultimo capitolo di questa guerra assurda riguarda il caso dei 19 iscritti alla Fiom che la Fiat è stata costretta ad assumere allo scopo di rimuovere quella che, a Pomigliano d’Arco, era ritenuta una discriminazione sindacale. L’azienda ha dato attuazione alla sentenza, ma non ha voluto avvalersi dell’opera di questi lavoratori che riceveranno, quindi, lo stipendio stando a casa.



Questo fatto ha provocato le consuete reazioni dei soliti noti, tutti in coro a invocare i diritti, la dignità del lavoro e quant’altro. Sia chiaro: noi siamo d’accordo con il ministro Elsa Fornero che si è chiamata fuori da questa vicenda, auspicando che si torni a relazioni normali. Occorre però essere onesti. Perché non ci possono essere due pesi e due misure. È forse una normale prassi sindacale quella, adottata da Landini, di voler risolvere davanti a un giudice questioni squisitamente attinenti alle relazioni industriali, che andrebbero affrontate attraverso il negoziato?

Ricorrere al giudice, però, è un suo diritto, benché nell’ambito dell’ordinamento intersindacale questa linea di condotta sia un’anomalia. Se è così, perché la Fiat dovrebbe privarsi di quanto le è riconosciuto dalla legge (dall’articolo 19 dello Statuto dei lavoratori) per regolare i problemi della rappresentanza e della rappresentatività dei propri interlocutori? E perché non dovrebbe avvalersi di una giurisprudenza consolidata che consente ai datori di lavoro condannati alla reintegra di un lavoratore licenziato di assolvere al loro obbligo mediante la riassunzione e il pagamento delle competenze spettanti senza doverlo reimpiegare nuovamente nel processo produttivo?



Del resto che altro avrebbe potuto fare, nel nostro caso, l’azienda? Condannata ad assumere 19 persone di cui, al momento, non aveva bisogno, sarebbe stata legittimata a licenziarne altrettanti. Anche questo comportamento – che avrebbe suscitato un mare di polemiche – sarebbe stato ampiamente legittimo, secondo quanto ha stabilito una giurisprudenza consolidata chiamata a pronunciarsi sulle procedure dei licenziamenti collettivi.

È bene ricordare brevemente questi aspetti. I licenziamenti collettivi non sono oggetto di ricorso giudiziale, se non nel momento in cui, terminata la procedura di esame congiunto tra sindacati e impresa, quest’ultima provvede a risolvere i rapporti di lavoro. È tenuta a farlo seguendo dei criteri di priorità (anzianità del dipendente, carichi familiari, ecc.) nella scelta degli esuberi, violando i quali è soggetta al ricorso intentato da un lavoratore che si ritenga leso nei suoi diritti. In questo caso, è pacifico che il datore, condannato a riassumere un lavoratore a cui il giudice abbia riconosciuto che nei suoi confronti non sono stati rispettati i criteri di selezione, possa licenziarne un altro.

A pensarci bene, allora, il Lingotto ha adottato le soluzione meno traumatica: ha dato attuazione alla sentenza riassumendo i 19 dipendenti, ma non ha ampliato gli organici. E, a maggior ragione, ha evitato di privarsi di altri 19 dipendenti colpevoli soltanto di non essere iscritti alla Fiom.

Intanto, sia pure in condizioni di mercato difficili, gli investimenti negli stabilimenti del gruppo procedono. L’unica a negarlo è la Fiom, anche se i lavoratori – compresi quelli di Grugliasco – non le credono più.

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